Cicerone, estromesso dalle tempestose vicende politiche

Cicero Terentio Varroni suo salutem dicit. Ex his litteris, quas Atticus, a te missas, mihi legit, quid ageres et ubi esses cognovi: quando autem te visuri essemus nihil sane ex iisdem litteris potui suspicari. In spem tamen venio appropinquare tuum adventum: qui mihi utinam solacio sit! Tot tantisque rebus urgemur ut nullam allevationem quisquam, nisi stultissimus, sperare debeat. Tamen aut tu potes me, aut ego te fortasse aliqua re iuvare. Scito enim me, posteaquam in urbem veni, redisse cum non quod eis succenserem, sed quod putabam me satis praeceptis eorum non paruisse, cum me dimisissem in fluctus turbolentissimos rei publicae. Illi tamen ignoscunt mihi, revocant in consuetudinem pristinam. Qui dicunt te, quod in ea consuetudine permansisti, sapientiorem quam me fuisse. Nunc eandem consuetudinem utrique nostrum profuturam esse spero.

Ad Limina (2) – Pag.160 n.22

Cicerone saluta il suo Terenzio Varrone. Da questa lettera inviata da te, che Attico mi ha letto, ho appreso cosa fai e dove sei: ma da quella lettera non ho potuto avere neanche un’idea di quando ti rivedremo. Comunque, comincio a sperare che il tuo ritorno sia prossimo: magari mi fosse di qualche consolazione! Siamo pressati da tante e tanto gravi cose che non c’è da sperare alcun rimedio, se non essendo del tutto pazzo. Ma forse in qualcosa tu puoi aiutare me e io posso aiutare te. Sappi, infatti, che, dopo il mio ritorno nell’urbe, mi sono riappacificato con i vecchi amici, cioè con i nostri libri. Infatti avevo smesso il rapporto con loro non perché avessi da lamentarmi di loro, ma perché ritenevo di non essermi adeguato a sufficienza ai loro insegnamenti, quando mi sono abbandonato tra le onde tempestosissime degli affari pubblici. Ma loro mi perdonano, mi richiamano alle vecchie abitudini. E mi dicono che tu, che hai persistito in quella abitudine, sei stato più saggio di me. Ora spero che quella stessa abitudine si protragga per ciascuno di noi.