Elegie, I, 5

Asper eram et bene discidium me ferre loquebar,
At mihi nunc longe gloria fortis abest.
Namque agor ut per plana citus sola verbere turben,
Quem celer adsueta versat ab arte puer.
Ure ferum et torque, libeat ne dicere quicquam
Magnificum post haec: horrida verba doma.
Parce tamen, per te furtivi foedera lecti,
Per venerem quaeso conpositumque caput.

Ille ego, cum tristi morbo defessa iaceres,
Te dicor votis eripuisse meis,
Ipseque te circum lustravi sulphure puro,
Carmine cum magico praecinuisset anus;
Ipse procuravi, ne possent saeva nocere
Somnia, ter sancta deveneranda mola;
Ipse ego velatus filo tunicisque solutis
Vota novem Triviae nocte silente dedi.
Omnia persolvi: fruitur nunc alter amore,
Et precibus felix utitur ille meis.

At mihi felicem vitam, si salva fuisses,
Fingebam demens, sed renuente deo.
Rura colam, frugumque aderit mea Delia custos,
Area dum messes sole calente teret,
Aut mihi servabit plenis in lintribus uvas
Pressaque veloci candida musta pede;
Consuescet numerare pecus, consuescet amantis
Garrulus in dominae ludere verna sinu.

Illa deo sciet agricolae pro vitibus uvam,
Pro segete spicas, pro grege ferre dapem.
Illa regat cunctos, illi sint omnia curae,
At iuvet in tota me nihil esse domo.
Huc veniet Messalla meus, cui dulcia poma
Delia selectis detrahat arboribus;
Et tantum venerata virum hunc sedula curet,
Huic paret atque epulas ipsa ministra gerat.
Haec mihi fingebam, quae nunc Eurusque Notusque
Iactat odoratos vota per Armenios.

Saepe ego temptavi curas depellere vino,
At dolor in lacrimas verterat omne merum.
Saepe aliam tenui, sed iam cum gaudia adirem,
Admonuit dominae deseruitque Venus.
Tunc me discedens devotum femina dixit
Et pudet et narrat scire nefanda meam.
Non facit hoc verbis, facie tenerisque lacertis
Devovet et flavis nostra puella comis.
Talis ad Haemonium Nereis Pelea quondam
Vecta est frenato caerula pisce Thetis.
Haec nocuere mihi, quod adest huic dives amator;
Venit in exitium callida lena meum.

Sanguineas edat illa dapes atque ore cruento
Tristia cum multo pocula felle bibat;
Hanc volitent animae circum sua fata querentes
Semper et e tectis strix violenta canat;
Ipsa fame stimulante furens herbasque sepulcris
Quaerat et a saevis ossa relicta lupis,
Currat et inguinibus nudis ululetque per urbes,
Post agat e triviis aspera turba canum.

Eveniet: dat signa deus; sunt numina amanti,
Saevit et iniusta lege relicta Venus.
At tu quam primum sagae praecepta rapacis
Desere, nam donis vincitur omnis amor.
Pauper erit praesto semper, te pauper adibit
Primus et in tenero fixus erit latere,
Pauper in angusto fidus comes agmine turbae
Subicietque manus efficietque viam,
Pauper ad occultos furtim deducet amicos
Vinclaque de niveo detrahet ipse pede.

Heu canimus frustra, nec verbis victa patescit
Ianua, sed plena est percutienda manu.
At tu, qui potior nunc es, mea fata timeto:
Versatur celeri Fors levis orbe rotae.
Non frustra quidam iam nunc in limine perstat
Sedulus ac crebro prospicit ac refugit,
Et simulat transire domum, mox deinde recurrit,
Solus et ante ipsas excreat usque fores.
Nescio quid furtivus amor parat. utere quaeso,
Dum licet: in liquida nat tibi linter aqua.

Furioso, questo ero: mi dicevo che bene avrei sopportato il distacco,
ma ora lontano è da me il vanto d’avere coraggio:
sto girando come una trottola, mossa sul selciato a colpi di frusta,
che un fanciullo nel vortice sospinge con la destrezza che gli è nota.
Brucialo questo ribelle, torturalo, che in futuro non possa più vantarsi;
doma questo suo squallido linguaggio.
Ma tu non infierire, te ne prego, per il patto segreto che ci unì a letto,
per Venere e le nostre teste posate vicine.

Sono io che, quando giacevi colpita da un male crudele,
con i miei voti, è risaputo, ti ho strappata alla morte;
sono io che, bruciando intorno a te zolfo vergine, ti ho purificata,
dopo che la vecchia aveva intonato le sue formule magiche;
sono io che da te le visioni funeste ho rimosso, perché non ti nuocessero,
scongiurandole tre volte col farro consacrato;
sono io che con la tunica sciolta e vestito di lino
ho nel silenzio della notte offerto a Trivia nove voti.
E tutti li ho sciolti, ma un altro ora si gode il tuo amore,
giovandosi felice delle mie preghiere.
Come un pazzo sognavo per me una vita felice,
se tu fossi guarita, ma un dio si opponeva.
‘Lavorerò in campagna e accanto a me sarà la mia Delia a custodire le biade,
mentre sull’aia al calore del sole si trebbieranno le messi, o sorveglierà
nei tini ricolmi la mia vendemmia
e lo spumeggiare del mosto spremuto dal ritmo dei piedi;
si abituerà a contare le mie greggi; e lo stesso schiavetto impertinente
si abituerà a giocare in grembo ad una padrona che l’ama.
E lei imparerà ad offrire agli dèi dei contadini i grappoli per la vite,
le spighe per la messe, il cibo per il gregge;
e comanderà su tutti, si curerà di tutto,
mentre in tutta la casa felice sarò io di non contar più nulla.
Qui verrà il mio Messalla e per lui Delia
dalle piante migliori raccoglierà la frutta matura;
e piena di rispetto per un uomo così illustre,
se ne occuperà con premura,
gli preparerà un banchetto e lo servirà lei stessa.’
Questi i miei sogni; ma ora Euro e Noto
li disperdono tra i profumi dell’Armenia.
Spesso ho tentato di cacciare gli affanni col vino,
ma il dolore m’ha mutato ogni vino in pianto.
Spesso ho tenuto fra le braccia un’altra, ma quando già ero vicino al piacere
Venere mi evocò l’amata abbandonandomi;
e quell’altra, staccandosi da me, allora mi disse stregato:
anche se si vergogna, racconta che la mia donna
conosce pratiche indicibili.
No, non mi seduce con sortilegi, ma col suo viso, con le sue tenere braccia
la mia donna mi strega, con i suoi capelli biondi.
Così un giorno Teti, nereide azzurra, su un pesce imbrigliato fu trasportata
verso Peleo, re dell’Emonia.
Questo il mio male. Se un amante ricco sta con lei,
a mia rovina venne un’astuta mezzana:
come vorrei che si cibasse di carne squartata
e con la bocca imbrattata di sangue vuotasse colmi di fiele calici amari;
che intorno le volassero le anime che piangono il loro destino,
mentre sul tetto senza posa un gufo soffia la sua rabbia;
che, aizzata dai morsi della fame, cercasse fra i sepolcri erbe e ossa
abbandonate dai lupi crudeli;
e che corresse ululando per tutta la città con gli inguini scoperti,
inseguita da una muta di cani,
che implacabili la cacciano da un crocicchio all’altro.
Così avverrà: un dio me l’annunzia.
Ogni innamorato ha i suoi numi, e Venere,
se viene a torto abbandonata, non perdona.
Ma tu dimentica al più presto gli insegnamenti interessati di questa tua maga.
E forse con i doni che si guadagna l’amore?
Un amante povero sarà sempre ai tuoi comandi;
un amante povero sarà il primo a presentarsi
e starà instancabile al tuo giovane fianco;
un amante povero nella ressa della gente,
compagno fedele, ti darà il braccio aprendoti la strada;
un amante povero in casa di amici discreti
ti accompagnerà di nascosto e dai piedi color di neve
egli stesso ti slaccerà i calzari.
Ahimè, inutilmente canto:
vinta dalle parole non si apre la porta: a mani colme va bussata.
Ma tu, che oggi a me sei preferito, trema per ciò che m’hai rubato:
in un solo giro di ruota, un attimo e cambia la fortuna.
Non senza ragione già ora sulla soglia s’arresta a curiosare un uomo,
lancia qualche sguardo e scompare, finge d’andarsene oltre la casa,
ma subito torna sui passi, solitario, e tossisce ogni volta davanti alla porta.
Non so cosa in segreto ti prepari Amore.
Dunque approfitta finché t’è concesso: la barca galleggia in acque tranquille.