Francesco Guicciardini

Nasce a Firenze nel 1483 da una famiglia assai ricca e influente, da due secoli presente nella vita politica della città. Dopo aver ricevuto un’accurata educazione di stampo umanistico, compie studi giuridici a Ferrara e a Padova, ed esercita in gioventù l’avvocatura, in attesa di raggiungere i 30 anni, età necessaria per dedicarsi alla carriera politica, sua vera vocazione.

Nel 1511 la Repubblica di Firenze (fedele alleata dei francesi) lo nomina alla non facile carica di ambasciatore presso Ferdinando il Cattolico, sovrano di Spagna. Dopo il ritorno dei Medici a Firenze (1512), viene richiamato nel 1513. Raccoglie le sue esperienze di ambasciatore in un Diario e in una Relazione di Spagna.

Ai Medici il Guicciardini si avvicinò subito (egli è sempre stato più favorevole a un governo aristocratico che repubblicano), ottenendo in cambio vari e importanti incarichi. Tuttavia i ruoli di maggior spicco li ottenne passando al servizio di papa Leone X, nel 1516. Viene nominato governatore di Modena, poi anche di Reggio e di Parma. Nel 1521 fu commissario dell’esercito papale in Lombardia, e mostrò doti di così fermezza e coraggio, difendendo vittoriosamente Parma assediata dai francesi, che il nuovo papa, Clemente VII, lo nomina presidente della Romagna. Anche in questa carica egli si distingue, stroncando la resistenza antipontificia dei signori locali. In questo periodo rifiuterà la proposta del Machiavelli di costituire in Romagna una milizia nazionale, non mercenaria. Qui resterà sino al ’26.

In seguito, preoccupato dell’egemonia spagnola instauratasi in Italia dopo la battaglia di Pavia, Guicciardini esercita la sua crescente influenza sul papa affinché si allei con la Francia nella Lega di Cognac (1526): ad essa aderirono i maggiori stati italiani, convinti di poter ristabilire l’equilibrio del 1494. Guicciardini è nominato luogotenente generale delle truppe di Roma e di Firenze, ma, non potendo agire con la dovuta risolutezza a causa della politica ambigua del papato, che aveva bisogno di Carlo V in funzione antiprotestante, non può impedire nel ’27 la sconfitta dell’esercito della Lega né il sacco di Roma. Il disastro coinvolge lo stesso Guicciardini, che viene accusato non soltanto d’essere responsabile della sconfitta, ma anche di essersi appropriato di somme di denaro durante le sue cariche (l’accusa però era infondata).

Intanto, approfittando delle difficoltà in cui si trovava il papato, Firenze caccia nuovamente i Medici e restaura la Repubblica. Guicciardini si ritira a vita privata in una villa di campagna, presso Firenze: vi resta tre anni, stendendo tre Orazioni a propria difesa e alcune delle sue opere maggiori. Nel ’29 il prevalere a Firenze della fazione degli Arrabbiati, nettamente anti-aristocratica, lo dichiara ribelle e gli confisca tutti i beni, obbligandolo all’esilio (Bologna e poi Roma). Papa Clemente VII infatti si era riconciliato con Carlo V anche per riavere i Medici (suoi parenti) alla guida di Firenze. Guicciardini era intervenuto per impedire che il cambio di guardia nella direzione della città avvenisse senza spargimento di sangue: per questo fu accusato di ribellione. La Repubblica si apprestò alla difesa eroica della città contro il papato e la Spagna: la disfatta avvenne nel 1530.

Guicciardini, che godeva del rinnovato favore di Clemente VII, può rientrare a Firenze e partecipare alla riforma del governo della città, nella speranza che il duca Alessandro dei Medici si lasci consigliare anche da lui. Quando però Alessandro viene ucciso dal cugino Lorenzino, Guicciardini, pur favorendo l’ascesa al potere di Cosimo dei Medici, non riuscì ad avere l’appoggio di quest’ultimo. Il rigido assolutismo del nuovo duca e la non troppo benevolenza di papa Paolo III lo convinsero a ritirarsi definitivamente nella sua villa di Arcetri, dove si dedicò alla stesura della sua opera più significativa, la Storia d’Italia. Muore nel 1540.

Il pensiero politico e storico

Il suo unico trattato teorico-politico è il Dialogo del reggimento di Firenze, composto tra il ’21 e il ’25. In esso Guicciardini auspica per Firenze un governo “misto”, sul modello di quello oligarchico-veneziano, che superi i difetti della signoria e del regime repubblicano. Prevede due magistrature formate dai rappresentanti delle famiglie più illustri e più ricche, aventi al vertice un gonfaloniere nominato a vita. L’aristocrazia che Guicciardini difendeva era quel ceto di magnati, astuti e intelligenti, che avevano saputo assumere il controllo dei traffici commerciali e delle industrie, alleandosi con la nuova borghesia mercantile e finanziaria. Per lui questa classe era la sola ad essere esperta nell’arte di governare, sia a livello politico-amministrativo che militare. Guicciardini è un politico conservatore: guarda con sospetto e diffidenza i tumulti popolari (ad es. quello dei Ciompi), l’assolutismo del principe e ritiene irrealizzabile l’idea di uno Stato nazionale. La sua preoccupazione principale è quella di conservare i vecchi istituti comunali e corporativi.

Ricordi politici e civili: sono oltre 400 pensieri di natura politica e morale, di varia lunghezza, composti tra il ’25 e il ’30, destinati ad esser letti dai familiari e dai discendenti (pubblicati, come molte altre sue opere, solo verso la metà dell’Ottocento). In essi Guicciardini ribadisce il principio rinascimentale dell’autonomia della politica, totalmente separata dalla religione e dalla morale; sostiene che la storia è un prodotto degli uomini, non della provvidenza, anche se la fortuna ha una parte rilevante nelle vicende degli uomini. Gli uomini che fanno la storia sono quelli che hanno intelligenza, forza, astuzia, abilità, autorità. Il popolo non fa “storia”. Gli avvenimenti storici sono indecifrabili se riferiti a uno schema teorico predefinito col quale li si vorrebbe interpretare. Nella storia le eccezioni, le circostanze fortuite, particolari, i necessari “distinguo” rendono impossibile una comprensione globale o generale della realtà. I fatti vanno compresi nelle loro circostanze particolari, caso per caso. La virtù che il politico deve possedere, a tale scopo, è la discrezione, che è la capacità di discernere con acume, sulla base dell’esperienza, i singoli fatti (prevale dunque l’analisi sulla sintesi).

In questo senso il Guicciardini si oppone al Machiavelli: non accetta il richiamo costante agli antichi (perché secondo lui il passato non può aiutarci a vivere il presente, non essendoci una concatenazione logica dei fatti storici), né apprezza lo sforzo di trarre dalla storia delle leggi universali. I fatti non possono essere ricondotti entro una visione unitaria, né si può risalire dal particolare al generale: il futuro resta imprevedibile. Di qui il forte pessimismo intellettuale del Guicciardini, che si manifesta anche nella concezione dell’uomo: a suo giudizio, infatti, la natura umana è fondamentalmente incline al male, almeno nel momento stesso in cui accetta di vivere in società. E questa inclinazione è immutabile.

Alla politica idealista e di ampio respiro del Machiavelli, Guicciardini oppone una politica che lui definiva “realista” ma che sarebbe meglio definire “opportunista”: la politica di quel diplomatico, esperto nell’arte di negoziare e consigliare, molto attento al proprio “particulare”, cioè alla propria dignità, reputazione e carriera politica (ad es. in religione egli avrebbe voluto farsi luterano, ma restò cattolico; odiava il clericalismo, ma si era adattato a servire il papato). Per “particulare” non si deve intendere il tornaconto materiale.

Nelle Considerazioni sopra i Discorsi del Machiavelli (1530), Guicciardini contesta che l’unificazione nazionale sia un obiettivo preferibile all’equilibrio tra le varie entità politiche esistenti e sostiene invece che l’autonomo sviluppo delle varie città e signorie, oltre ad essere causa di benessere economico, corrisponde meglio alle antiche consuetudini degli italiani.

L’opera più importante, sul piano storiografico, è la Storia d’Italia, in 20 volumi, composta tra il ’36 e il ’39. E’ il capolavoro di tutta la storiografia del ‘500. Tratta gli avvenimenti che vanno dalla discesa di Carlo VIII alla morte di Clemente VII. E’ l’unica ch’egli compose espressamente per la pubblicazione. Guicciardini è il primo che raccoglie in un quadro le vicende di tutta Italia, ed è anche il primo che pone a fondamento della narrazione documenti autentici e originali: di qui la sua pretesa imparzialità. La differenza principale fra la sua storiografia e quella del Machiavelli la si riscontra anche nel giudizio che dà della Repubblica fiorentina. Mentre il Machiavelli aveva ricercato nelle passate vicende della città le prove della fragilità del piccolo stato corporativo rispetto alle nazioni europee emergenti; il Guicciardini invece addebitava il declino della città alle passioni e agli errori di singoli e famosi personaggi, vissuti negli ultimi 40 anni, oppure alle pretese delle classi più popolari o addirittura all’influsso negativo della fortuna.

Guicciardini critico di Machiavelli

Qual è la critica principale che il Guicciardini fa al Machiavelli? Quella d’essere un “utopista” invece che un “realista”. Non a caso il Guicciardini -a differenza del Machiavelli- fece una notevole carriera politica.

Ma chi è stato più “premiato” dalla storia? Chi dei due ha potuto beneficiare di una maggiore realizzazione storica dei propri ideali? Si può forse dire che il Guicciardini fosse più “realista” del Machiavelli quando pensava di potersi opporre, con le sole risorse del papato o di una Lega provvisoria dei maggiori Stati italiani, alla potenza di nazioni come la Spagna o la Francia? Era forse più realista del Machiavelli quando rifiutava l’idea di costituire un esercito non mercenario?

Nella fattispecie la politica del Guicciardini ha avuto più successo di quella del Machiavelli, ma non si può dire che abbia avuto anche più ragioni. L’ideale del Machiavelli, relativo all’unificazione nazionale, non è forse fallito anche per l’opposizione di politici miopi come il Guicciardini? Chi ricordiamo oggi più volentieri: il passionale lungimirante Machiavelli o il freddo calcolatore Guicciardini?

La prospettiva di lungo periodo ha dato ragione al Machiavelli, anche se il rifiuto ostinato, trisecolare, di accettare il suo ideale, ha fatto regredire così tanto l’Italia, rispetto ad altre nazioni europee, che ancora oggi ne risentiamo.