Grazia Deledda

Grazia Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936), fu una scrittrice sarda, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1926. Nacque da una famiglia piccolo borghese e numerosa, frequentò le scuole elementari e in seguito venne seguita privatamente da un professore ospite di una sua parente per poi approfondire da autodidatta gli studi letterari.

Esordì come scrittrice con alcuni racconti pubblicati sulla rivista “L’ultima moda” quando affiancava ancora alla sua opera narrativa quella poetica. Nell’azzurro, pubblicato da Trevisani nel 1890 può considerarsi la sua opera d’esordio. Ancora in bilico tra l’esercizio poetico e quello narrativo si ricordano, tra le prime opere, Paesaggi sardi, edito da Speirani nel 1896. Nel Novecento, dopo aver contratto matrimonio con Palmiro Madesani, funzionario del Ministero della guerra conosciuto a Cagliari nell’ottobre del 1899, la scrittrice si trasferì a Roma e in seguito alla pubblicazione di Anime oneste del 1895 e di Il vecchio della montagna del 1900, oltre alla collaborazione sulle riviste “La Sardegna”, “Piccola rivista” e “Nuova Antologia”, la critica inizia ad interessarsi alle sue opere. Nel 1903 pubblica Elias Portolu che la conferma come scrittrice e la avvia ad una fortunata serie di romanzi e opere teatrali: Cenere (1904), L’edera (1906), Sino al confine (1911), Colombo e sparvieri (1912), Canne al vento (1913), L’incendio nell’oliveto (1918), Il Dio dei venti (1922).

Da Cenere fu tratto un film interpretato da Eleonora Duse. La sua opera fu stimata da Capuana e Verga oltre che da scrittori più giovani come Enrico Thovez, Pietro Pancrazi e Renato Serra. La narrativa della Deledda si basa su forti vicende d’amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità. È stata ipotizzata un’influenza del verismo di Giovanni Verga ma, a volte, anche quella del decadentismo di Gabriele D’Annunzio, oltre che di Lev Nikolaevič Tolstoj. Nei romanzi della Deledda vi è sempre un forte connubio tra i luoghi e le persone, tra gli stati d’animo e il paesaggio. Il paesaggio rappresentato è quello aspro della nativa Sardegna che però non viene rappresentato secondo gli schemi veristici regionali e nemmeno con la fantastica coloritura dannunziana, ma rivissuti attraverso il mito. La critica ha incasellato la sua opera di volta in questo o in quell’-ismo: regionalismo, verismo, decadentismo… Alcuni critici invece preferiscono riconoscerle, com’è dovuto ai grandi autori, l’originalità della sua poetica: per quanto ben inserita nel contesto del Novecento europeo, essa tutto sfiora, senza a niente appartenere.