La favola di Narciso (II)

Statim puer nova atque mira flamma ardet et puerum amat, quem (“che”, acc. m. sing.) aspicit, quia umbram non agnoscit neque intellegit. Se ipsum (“se stesso”) cupit, se ipsum amat studioque nimio consumitur. Humi recumbit et oculos, quasi (“simili a”) signa caeli, et comam Baccho dignam (+ abl.) et genas et collum eburneum et rubra in niveo vultu (“volto”, abl. m.) labia conspicit. Nonnulla inrita oscula dolosae rivi aquae dat, bracchia frustra (avv.) saepe mergit: nam simulacrum numquam capit; decipitur animus pueri, decipiuntur oculi. Tandem e vita excedit nymphaeque rogum pro puero instruunt. Membra autem evanescunt et miro portento croceus flos (“fiore”, nom. m.) de humo nascitur (“nasce”), qui (“che”, nom. m. sing.) alba folia habet et narcissus etiam nunc appellatur.

Subito il giovane arde per un fuoco nuovo e straordinario e ama il giovane, che vede, poiché non riconosce il riflesso e non capisce. Desidera se stesso, ama se stesso ed è consumato da un’eccessiva passione. Si sdraia a terra e osserva gli occhi, simili ad astri del cielo, la chioma degna di Bacco, le guance, il collo bianco come l’avorio e le labbra rosse sul candido volto. Dà alcuni vani baci all’ingannevole acqua del ruscello, invano immerge spesso le braccia: infatti non afferra mai il riflesso; l’animo del giovane è ingannato, gli occhi sono ingannati. Alla fine muore e le ninfe erigono una pira per il giovane. Ma le membra svaniscono e con uno straordinario portento dalla terra nasce un fiore giallo, che ha petali bianchi e anche oggi è chiamato narciso.