Bellum Catilinae [cap.1-10]

I
Omnis homines qui sese student praestare ceteris animalibus summa ope niti decet ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit. Sed nostra omnis vis in animo et corpore sita est; animi imperio, corporis servitio magis utimur; alterum nobis cum dis, alterum cum beluis commune est. Quo mihi rectius videtur ingeni quam virium opibus gloriam quaerere et, quoniam vita ipsa qua fruimur brevis est, memoriam nostri quam maxume longam efficere. Nam divitiarum at formae gloria fluxa atque fragilis est, virtus clara aeternaque habetur. Sed diu magnum inter mortalis certamen fuit vine corporis an virtute animi res militaris magis procederet. Nam et prius quam incipias consulto et, ubi consuleris, mature facto opus est. Ita utrumque per se indigens alterum alterius auxilio eget.
A tutti gli uomini che vogliono superare gli altri esseri viventi conviene che si caratterizzino per un’attività straordinaria perchè non trascorrano la vita nel silenzio come gli animali, che la natura volle proni e obbedienti ai bisogni. Ma tutta la nostra forza è situata nell’aniomo e nel corpo; utiliziamo di più dell’animo la facoltà di comandare, del corpo quella di obbedire; l’una è a noi comune con gli dei, l’altra con le bestie. Perciò mi sembra più giusto cercare la gloria con le qualità dell’ingegno più che del fisico e, poichè la vita stessa di cui usufruiamo è breve, (mi sembra più giusto) rendere il nostro ricordo il più duraturo possibile. Infatti la gloria dei soldi e della bellezza è fragile e caduca; il valore invece è considerato illustre ed eterno. Ma a lungo c’è stata tra gli uomini grande discussione se l’arte militare fosse più avvantaggiatadalla forza fisica o dal valore interiore. Infatti c’è bisogno sia di una decisione prima che tu la intaprenda sia, una volta deciso, di una azione rapida. Così entrambe, povere da sole, hanno bisogno dell’aiuto l’una dell’altra. 
II
Igitur initio reges–nam in terris nomen imperi id primum fuit–diversi pars ingenium, alii corpus exercebant: etiam tum vita hominum sine cupiditate agitabatur; sua cuique satis placebant. Postea vero quam in Asia Cyrus, in Graecia Lacedaemonii et Athenienses coepere urbis atque nationes subigere, libidinem dominandi causam belli habere, maximam gloriam in maximo imperio putare, tum demum periculo atque negotiis compertum est in bello plurimum ingenium posse. Quod si regum atque imperatorum animi virtus in pace ita ut in bello valeret, aequabilius atque constantius sese res humanae haberent, neque aliud alio ferri neque mutari ac misceri omnia cerneres. Nam imperium facile iis artibus retinetur, quibus initio partum est. Verum ubi pro labore desidia, pro continentia et aequitate libido atque superbia invasere, fortuna simul cum moribus immutatur. Ita imperium semper ad optimum quemque a minus bono transfertur. Quae homines arant navigant aedificant, virtuti omnia parent. Sed multi mortales, dediti ventri atque somno, indocti incultique vitam sicuti peregrinantes transigere; quibus profecto contra naturam corpus voluptati, anima oneri fuit. Eorum ego vitam mortemque iuxta aestimo, quoniam de utraque siletur. Verum enim vero is demum mihi vivere atque frui anima videtur, qui aliquo negotio intentus praeclari facinoris aut artis bonae famam quaerit. Sed in magna copia rerum aliud alii natura iter ostendit.

Perciò all’inizio i re, infatti questo fu per primo il nome del potere in terra, ciascuno secondo la propria indole comandava con l’ingegno o con la forza. Fino a quel tempo la vita degli uomini trascorreva senza avidità, ciascuno era contento del proprio. Ma dopo che in Asia Ciro, in Grecia gli Spartani e gli Ateniesi, presero a sottomettere le città e i popoli, a prendere come scusa per la guerra il desiderio di dominio e a reputare come gloria più grande nel più grande dominio, allora ci si accorse che in guerra, facendo esperienze pericolose, l’ingenio può fare molto. Che se poi la virtù dell’animo dei re e degli imperatori valesse sia in pace che in guerra, le vicende umane si svolgerebbero in modo più giusto e stabile e né si vedrebbe una cosa andare in un modo, l’altra in un altro, né cambiare o mescolarsi. Infatti il potere facilmente si mantiene con quelle arti con le quali è nato in principio; in verità dove al posto della fatica subentrò l’inerzia, al posto della moderazione e della giustizia subentrarono la libidine e la superbia la fortuna cambiò con le abitudini. Così il potere si trasferisce dal meno capace al migliore. Ciò che gli uomini arano, navigano e costruiscono, fanno ogni cosa con intelligenza. Ma molti mortali, dediti al cibo e al sonno, senza dottrina ed educazione, come pellegrini trascorrono la vita, per i quali veramente contro natura- il corpo fu fonte di piacere e l’anima di peso. Io stimo uguale la vita e la morte di quelli poiché di entrambe non si parla. Ma al contrario mi sembra che vive e usa l’intelletto, chi intento in qualche attività cerca la fama di un’impresa illusre o di una nobile attività. Ma in un gran numero di cose la natura mostra una strada ad uno e un’altra all’altro.
III
Sed in magna copia rerum aliud alii natura iter ostendit. Pulchrum est bene facere rei publicae, etiam bene dicere haud absurdum est: vel pace vel bello clarum fieri licet; et qui fecere, et qui facta aliorum scripsere, multi laudantur. Ac
mihi quidem, tametsi haudquaquam par gloria sequitur scriptorem et auctorem rerum, tamen in primis arduum videtur res gestas scribere: primum, quod facta dictis exaequanda sunt; dehinc, quia plerique, quae delicta reprehenders, malevolentia et invidia dicta putant; ubi de magna virtute atque gloria bonorum memores, quae sibi quisque facilia factu putat, aequo animo accipit, supra ea veluti ficta pro falsis ducit. Sed ego adulescentulus initio, sicuti plerique, studio ad rem publicam latus sum, ibique mihi multa advors fuere. Nam pro pudore, pro abstinentia, pro virtute, audacia, largitio, avaritia vigebant. Quae tametsi animus aspernabatur, insolens malarum artium, tamen inter tanta vitia imbecilla aetas ambitione corrupta tenebatur; ac me, cum ab relicuorum malis moribus dissentirem, nihilo minus honoris cupido eadem quae ceteros fama atque invidia vexabat.
E’ nobile operare nell’interesse dello stato, ma non è senza pregio  anche scriverne in modo adeguato; o in pace o in guerra è lecito segnalarsi; e sia tra quanti hanno bene operato, e sia tra chi ha narrato le gesta di altri , in molti sono a essere lodati. Per lo meno, sebbene la gloria di chi descrive i fatti e di chi li compie non sia assolutamente uguale, tuttavia sembra oltremodo difficile narrare delle gesta: in primo luogo perché bisogna con le parole essere all’altezza delle imprese; poi, poiché i più credono dettate da malevola avversione le condanne per le cose delittuose; qualora poi tu rievochi il gran valore e la gloria di uomini eccezionali, la moltitudine accetta di buon grado le cose che ritiene siano facili di parte sua a realizzarsi, mentre ritiene invece falso come se fosse inventato ciò che è al di sopra delle sue capacità. Ma io sin da fanciullo, così come i più, mi lasciai trascinare alla politica dall’ambizione, e lì incontrai molte delusioni. Infatti vigevano l’audacia, la sfrontatezza, la cupidigia al posto del pudore, del disinteresse, del valore. Cose che sebbene l’animo non abituato a maneggi disonesti disdegni, tuttavia in mezzo a tanti vizi la mia debole età si lasciava corrompere dall’ambizione; e, sebbene fossi contrario a tutti i restanti cattivi costumi, mi vessava non meno quella stessa brama di onori che con la maldicenza e l’invidia vessava tutti gli altri.
IV
Igitur, ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi reliquam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere, neque vero agrum colundo aut venando, servilibus officiis, intentum aetatem agere: sed a quo incepto studioque me ambitio mala detinuerat eodem regressus, statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere; eo magis quod mihi a spe, metu, partibus rei publicae animus liber erat, igitur de Catilinae coniuratione quam verissume potero paucis absolvam: nam id facinus in primis ego memorabile existumo sceleris atque periculi novitate. De cuius hominis moribus pauca prius explananda sunt quam initium narrandi faciam.
Quindi, quando l’animo poté riaversi dopo molte traversie e rischi e decisi di mantenermi per il resto della vita lontano dallo stato, non mi proposi di sprecare il mio prezioso tempo libero nell’apatia e nella pigrizia, e neppure di condurre avanti la mia esistenza cacciando o coltivando i campi, lavori da schiavi; ma stabilii, ritornando allo stesso disegno ed inclinazione dalla quale la funesta ambizione mi aveva distolto, di narrare a episodi le gesta del popolo romano, secondo che
ciascun avvenimento mi sembrava degno di essere ricordato; tanto più che il mio animo era libero dall’attesa, dalla paura, dalla faziosità politica. Quindi tratterò brevemente con la maggior veridicità possibile riguardo alla congiura di Catilina; infatti quell’impresa nefasta sulle prime io stimo memorabile per l’eccezionalità della scelleratezza e del pericolo. Prima di dar inizio alla narrazione bisogna trattare brevemente riguardo ai costumi di quell’uomo.
V
Lucius Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo parvoque. Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuère, ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae, supra quam cuiquam credibile est. Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator; alieni adpetens, sui profusus; ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei pubblicae capiundae, neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et coscientia scelerum, quae utraque is artibus auxerat quas supra memoravi. Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.
Res ipsa hortari videtur, quoniam de moribus civitatis tempus admonuit, supra repetere ac paucis instituta maiorum domi militiaeque, quomodo rem publicam habuerint quantamque relinquerint, ut, paulatim inmutata, ex pulcherruma pessuma ac flagitiosissuma facta sit, disserere.
Lucio Catilina nato da nobile stirpe, ebbe grande vigore intellettuale e fisico, ma un’indole malvaggia e perversa. Di questo dalla adolescenza fu compiacente (si compiaque) di rapine, guerre civili, uccisioni, discordie civili, tra le quali visse la sua giovinezza. Il corpo era tollerante del digiuno, del freddo e della veglia al di là di ogni credere. L’animo era audace, scaltro, mutevole, delle cui cose si compiaceva (di essere) simulatore e dissimulatore; bramoso dell’ altrui, prodigo del suo; ardente in cupidigia; abbasatnza loquace, poco assennato. Il suo grande spirito, incredibilmente, desiderava sempre altro. Dopo la tirannide di L. Silla, lo aveva invaso una brama immensa di impadronirsi dello stato; ne si dava alcun pensiero del modo con cui conseguire questo scopo, purché si assicurasse un potere assoluto. Il suo animo fiero era ogni giorno di più, agitato dalla scarsità del patrimonio, e dalla coscienza dei suoi crimini che, l’una e l’altra, egli aveva accresciuto con la pratica dei vizi sopra ricordati. lo incoraggiavano inoltre i costumi corrotti della città, che ospitavanodue mali pessimi e opposti fra loro: il lusso e la cupidigia.
Poichè l’occasione mi ha richiamato a mente i costumi della città, l’argomento stesso perchè mi inciti a risalire indietro ai pochi ordinamentidegli uomini e degli antenati in pace ed in guerra, come essi abbiano governato lo Stato e quanto grande l’abbiano lasciato e come, a poco, a poco cambiatosi, da nobilissimo e virtuosissimo sia divenuto pessimo e viziosissimo (pieno di vizi).
VI
Urbem Romam, sicuti ego accepi, condidere atque habuere initio Troiani qui, Aenea duce profugi, sedibus incertis vagabantur, cumque is Aborigines, genus hominum agreste, sine legibus, sine imperio, liberum atque solutum. Hi postquam in una moenia convenere, dispari genere, dissimili lingua, alius allo more viventes, incredibile memoratu est quam facile coaluerint: < ita brevi multitudo diversa atque vaga concordia civitas facta erat>. Sed postquam res eorum civibus, moribus, agris aucta satis prospera satisque pollens videbatur, sicuti pleraque mortalium habentur, invidia ex opulentia orta est. Igitur reges populique finitumi bello temptare, pauci ex amicis auxilio esse; nam ceteri, metu perculsi, a periculis aberant. At Romani, domi militiaeque intenti festinare, parare, alius alium hortari, hostibus obviam ire, libertatem, patriam parentesque armis tegere. Post, ubi pericula virtute propulerant, sociis atque amicis auxilia portabant, magisque dandis quam accipiundis beneficiis amicitias parabant. Imperium legitumum, nomen imperi regium habebant. Delecti, quibus corpus annis infirmum, ingenium sapientia validum erat, rei publicae consultabant; ei vel aetate vel curae similitudine patres appellabantur. Post, ubi regium imperium, quod initio conservandae libertatis atque augendae rei publicae fuerat, in superbiam dominationemque se convortit, immutato more annua imperia binosque imperatores sibi facere; eo modo minime posse putabant per licentiam insolescere animum humanum.
La città di Roma, così come io ho appreso, fu inizialmente fondata ed abitata dai Troiani, i quali profughi sotto il comando di Enea, vagavano senza sedi fisse, e con quelli gli “Aborigines”, genere di uomini agreste, senza leggi, senza forme di governo, libero ed indipendente. Questi, dopo che andarono a vivere entro la stessa cerchia di mura, pur diversi per genere, dissimili nel linguaggio, vivendo chi secondo un costume, chi secondo un altro, è incredibile a ricordarsi con quanta facilità si siano fusi insieme: < così in breve grazie alla concordia una massa eterogenea e sbandata era diventata una comunità civile >. Ma dopo questi avvenimenti sembrava in tutto prospera, essendo cresciuta nel numero di cittadini , in civiltà, in territorio, e pareva svilupparsi nel modo adeguato, e, così come va la maggior parte delle cose mortali, l’invidia nacque dall’opulenza. Quindi i sovrani ed i popoli confinanti li provocavano alla guerra, dagli amici veniva poco aiuto; infatti questi ultimi, impauriti, stavano alla larga dai pericoli. Ma i Romani, in pace ed in guerra intenti a restare attivi, prepararsi, esortarsi l’un l’altro, andarono in contro ai nemici e impugnarono le armi per la libertà, la patria ed i parenti. In seguito, quando i pericoli erano stati scacciati con il valore, gli amici e gli alleati portavano aiuti, e facevano amicizie più dando benefici che ricevendone. Avevano uno stato legittimo, e davano a tale governo il nome di regno. Uomini scelti, che avevano un corpo debole per l’età, ma la mente vigorosa per la saggezza, curavano lo stato; e quelli per l’età e l’analogia della funzione erano chiamati padri. Più avanti , quando il regno, che era stato istituito per conservare la libertà e garantire il governo, degenerò in un arrogante dispotismo, cambiato regime, essi istituirono per loro stessi governi annuali e due capi; in quel modo ritenevano che fosse molto poco probabile che l’animo umano per abuso di potere diventasse arrogante.
VII
Sed ea tempestate coepere se quisque magis extollere magisque ingenium in promptu habere. Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est. Sed civitas incredibile memoratu est adepta libertate quantum breui creuerit: tanta cupido gloriae incesserat. Iam primum iuventus, simul ac belli patiens erat, in castris per laborem usum militiae discebat, magisque in decoris armis et militaribus equis quam in scortis atque conviviis libidinem habebant. Igitur talibus viris non labor insolitus, non locus ullus asper aut arduos erat, non armatus hostis formidulosus: virtus omnia domuerat. Sed gloriae maximum certamen inter ipsos erat: se quisque hostem ferire, murum ascendere, conspici, dum tale facinus faceret, properabat. Eas divitias, eam bonam famam magnamque nobilitatem putabant. laudis auidi, pecuniae liberales erant; gloriam ingentem, divitias honestas volebant. memorare possum, quibus in locis maximas hostium copias populus Romanus parua manu fuderit, quas urbis natura munitas pugnando ceperit, ni ea res longius nos ab incepto traheret.
In quel periodo ciascuno cominciò a salire e ostentare i propri meriti. Ai potenti, infatti, risulta più sospetta l’onestà che la depravazione e per loro la virtù altrui è fonte di angoscia. Ma lo Stato – quasi incredibilmente – ottenuta la libertà, in breve tempo diventò prospero, mentre gli animi dei cittadini erano catturati dal desiderio di gloria. I giovani, in primo luogo, non appena pronti per la vita militare, si istruivano all’arte della guerra nell’aspro rigore degli accampamenti e traevano piacere più dalle armi lucenti e dall’equitazione militare che dai bordelli o dai banchetti. Infatti questi uomini si sottoponevano spesso alla fatica; nessun posto era per loro aspro o arduo; mai avevano terrore del nemico: il coraggio superava ogni ostacolo. Fra loro vi era una grande competizione per raggiungere la gloria: ciascuno si affrettava ad assalire il nemico, a salire per primo sulle mura della città, a mettersi ben in risalto mentre compiva queste imprese. Per costoro questo tipo di valore era sacro: la buona fama, la grande nobiltà. Erano avidi di lodi, e generosi nello spendere il senaro. Desideravano glorie smisurate e un moderato benessere. Potrei enumerare quante volte il popolo romano riuscì a disperdere con un pugno di uomini un gran numero di nemici e quante città furono espugnate, benchè forti per la loro posizione naturale; ma questo elenco ci allontanerebbe troppo dal nostro cammino.
VIII
Sed profecto fortuna in omni re dominatur; ea res cunctas ex libidine magis quam ex vero celebrat obscuratque. Atheniensium res gestae, sicuti ego aestimo, satis amplae magnificaeque fuere, verum aliquanto minores tamen quam fama feruntur. Sed quia provenere ibi scriptorum magna ingenia, per terrarum orbem Atheniensium facta pro maximis celebrantur. Ita eorum qui fecere virtus tanta habetur, quantum eam verbis potuere extollere praeclara ingenia. At populo Romano numquam ea copia fuit, quia prudentissimus quisque maxime negotiosus erat, ingenium nemo sine corpore exercebat, optimus quisque facere quam dicere, sua ab aliis bene facta laudari quam ipse aliorum narrare malebat.
Ma senza dubbio la sorte regna in ogni situazione; essa celebra e oscura tutte le situazione per capriccio più che per verità. Si dice che le gesta degli Ateniesi, così come io stimo, furono abbastanza importanti e grandiose, ma comunque alquanto di meno della fama. Ma poiché lì fiorirono scrittori di grande ingegno, per il mondo le imprese degli Ateniesi vengono celebrate per grandissime (imprese). Invece il popolo Romano non ebbe mai quest’abbondanza (di scrittori), poiché i più saggi erano (anche) i più attivi, (e) nessuno esercitava l’ingegno senza il corpo, ciascuno dei migliori preferiva agire che parlare, (ed) essere lodati dagli altri per i propri per le loro buone imprese piuttosto che parlare loro stessi degli altri.
IX
Igitur domi militiaque boni mores colebantur; concordia maxuma, minima avarita erat.Ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat. Iurgia, discordias, simultates cum hostibus exercebant, cives cum civibus de virtute certabant. In suppliciis deorum magnifici, domi parci, in amicos fideles erant. Duabus his artibus, audacia in bello, ubi pax evenerat aequitate, seque remque publicam curabant. Quarum rerum ego maxuma documenta haec habeo, quod in bello saepius vindicatum est in eos qui contra imperium in hostem pugnaverant quique tardius revocati proelio excesserat, quam qui signa relinquere aut pulsi loco cedere ausi erant; in pace vero quod beneficiis magis quam metu imperium agitabant, et accepta iniuria ignoscere quam persequi malebant.
Dunque erano praticati i buoni costumi in tempo di pace e di guerra; era massima la concordia, minima l’avidità. Il giusto e l’onesto presso di loro non prevaleva di più con le leggi che con la natura. Mantenevano accese discordie, rivalità e litigi con i nemici, i cittadini rivaleggiavano tra loro in quanto a valore. Erano solenni nelle cerimonie religiose, sobri nelle abitazioni, fedeli in amicizia. Si preoccupavano di se stessi e dello stato attraverso queste due qualità, l’audacia in guerra e la giustizia in temopo di pace. Delle quali cose io ho queste due massime testimonianze: che più spesso in guerra si adottarono sever punizioni verso quelli che avevano combattuto con i nemici contro un ordine e coloro che, richiamati, si erano ritirati più tardi dal combattimento, piuttosto che chi osava abbandonare le insegne o, colpito, osavi ritirarsi da una posizione; che invece in pace praticavano la loro autorità con il favore piuttosto che la paura della popolazione,e preferivano perdonare le ingiurie ricevue piuttosto che vendicarle. 
X
Sed ubi labore atque iustitia res pubblica crevit, reges meagni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Chartago aemula imperi Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias,oneri miseriaeque fuere.Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. Namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aextumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.
Ma quando la repubblica si fu ingrandita col lavoro e la giustizia, quando i grandi re furono domati con la guerra, quando le nazioni selvagge e tutti i popoli furono sottomessi con la forza, quando Cartagine rivale dell’Impero Romano fu distrutta alla radice e quando ormai erano aperti tutti i mari e le terre, la sorte cominciò a infuriare e a mettere sottosopra tutte le cose. Coloro i quali avevano tollerato facilmente lavori pesanti, pericoli, situazioni aspre e dubbie, proprio a loro in altri momenti l’ozio e le ricchezze furono di peso e di rovina. Dunque per prima cosa crebbe il desiderio di ricchezze e quindi quello del potere; queste cose per così dire furono l’origine di tutti i mali. Ed infatti l’avidità sovvertì la fiducia, l’onestà e tutte le altre qualità del comportamento; al posto di queste si insegnò la superbia , la crudeltà, a rinnegare gli dei e ad avere tutto come oggetto di prezzo. L’ambizione spinse molti mortali a diventare disonesti , ad avere una cosa chiusa nel cuore ed un’altra manifesta sulla lingua, a stimare amicizie ed inimicizie non dai fatti ma dai vantaggi e a reputare migliore l’aspetto esteriore dell’intelligenza. Queste cose sulle prime incominciarono a crescere a poco a poco e talora ad essere vendicate; ma dopo, quando la contaminazione si estese quasi come una pestilenza, il governo/la città mutò e l’impero da giustissimo e ottimo divenne crudele ed intollerante.