La storia di Roma – Scipione l’Africano (III)

«Quod ad me attinet, et humanae infirmitatis memini et vim fortunae reputo et omnia quaecumque agimus subiecta esse mille casibus scio; ceterum quemadmodum superbe et violenter facerem, si te aspernarer tua voluntate cedentem Italia et imposito in naves exercitu ipsum venientem ad pacem petendam, sic nunc, cum prope manu conserta restitantem ac tergiversantem in Africam attraxerim, nulla sum tibi verecundia obstrictus. Proinde si quid adicitur ad priores condiciones, quae pacem conciliaturae videbantur, referam ad consilium: sin illa quoque gravia videntur, bellum parate quoniam pacem pati non potuistis». Ita infecta pace ex conloquio ad suos cum se recepissent, frustra verba temptata renuntiant: armis decernendum esse habendamque eam fortunam quam di dedissent.

Livio

«Per quanto mi riguarda, ho presente la debolezza umana e considero la potenza della fortuna e so che tutte le cose che facciamo sono soggette a mille casi; del resto come mi comporterei con superbia e violenza, se respingessi te, che di tua volontà va via dall’Italia e, posto l’esercito sulle navi, vieni per chiedere la pace, così ora, dopo averti trascinato in Africa, avendoti quasi afferrato per mano, nonostante tentassi di resistere e indugiassi, non sono vincolato a te da nessun riguardo. Perciò se a quelle precedenti condizione, che sembravano destinate a ristabilire la pace, si aggiunge qualcosa, lo riferirò al consiglio: se invece anche quelle (vi) sembrano gravose, preparate la guerra, poiché non siete stati in grado di sopportare la pace». Così, essendosi ritirati dall’incontro presso i loro senza aver concluso la pace, riferiscono le parole pronunciate invano: bisognava combattere e disporre di quella fortuna che gli dèi avessero concesso.