Doti strategiche di Cesare (II)

Ne religione quidem ulla a quoquam incepto absterritus umquam vel retardatus est. Cum ei immolanti aufugisset hostia, profectionem adversus Scipionem et Iubam non distulit. Quamvis prolapsus esset etiam in egressu navis, vertit ad melius omen et «Teneo te – inquit – Africa». Ad eludendas autem vaticinationes, quibus felix et invictum in ea provincia fataliter Scipionum nomen ferebatur, despectissimum quendam ex Corneliorum genera, cui Salvitoni cognomen erat, in castris secum habuit. Proe,ia non tantum destinato, sed ex occasione sumebat ac saepe ab itinere statim, interdum spurcissimis tempestatibus, cum minime quis moturum esse eum putaret. Nec nisi tempore extremo ad dimicandum cunctatior factus est, quo saepius vicisset, opinans hoc minus experiendos casus nihilque se tantum adquisiturum victoria, quantum auferre calamitas posset. Nullum unquam hostem fudit, quin castris quoque exueret: ita nullum spatium perterritis dabat. Ancipiti proelio equos dimittebat et in primis suum, quo maior permanendi necessitas imponeretur, auxilio fugae erepto.

Non fu mai distolto o trattenuto da alcuna impresa neppure dallo scrupolo religioso. Pur essendogli sfuggita una vittima mentre sacrificava, non rinviò la partenza contro Scipione e Giuba. Per di più, sebbene fosse scivolato mentre usciva dalla nave (lett: “durante l’uscita dalla nave”), volse il presagio in senso favorevole e disse: «Ti controllo, Africa». Per eludere le predizioni, secondo le quali il nome degli Scipioni era detto fortunato e invincibile in quella provincia, tenne con sé nell’accampamento un tale assai disprezzato della famiglia dei Cornelii, che aveva il soprannome di “Salvitone”. Intraprendeva le battaglie non tanto secondo un piano prestabilito, ma in base all’occasione e spesso subito dalla marcia, talvolta in condizioni di tempo assai brutte, quando nessuno credeva che si sarebbe mosso. Solamente negli ultimi tempi divenne più esitante a combattere, pensando che quanto più spesso aveva vinto, tanto meno doveva tentare la sorte e che dalla vittoria non avrebbe guadagnato tanto quanto la sventura poteva togliergli. Non sbaragliò mai il nemico, senza che lo privasse anche dell’accampamento: così non dava nessuna possibilità ai terrorizzati. In una battaglia incerta lasciava andare i cavalli e in primo luogo il suo, affinché si imponesse una maggior necessità di resistere, essendo stato eliminato l’aiuto per la fuga.