Ab Urbe Condita – Liber 1

I – Arrivo dei profughi Troiani in Italia

Iam primum omnium satis constat Troia capta in ceteros saevitum esse Troianos, duobus, Aeneae Antenorique, et vetusti iure hospitii et quia pacis reddendaeque Helenae semper auctores fuerant, omne ius belli Achiuos abstinuisse; casibus deinde variis Antenorem cum multitudine Enetum, qui seditione ex Paphlagonia pulsi et sedes et ducem rege Pylaemene ad Troiam amisso quaerebant, venisse in intimum maris Hadriatici sinum, Euganeisque qui inter mare Alpesque incolebant pulsis Enetos Troianosque eas tenuisse terras. Et in quem primo egressi sunt locum Troia vocatur pagoque inde Troiano nomen est: gens universa Veneti appellati. Aeneam ab simili clade domo profugum sed ad maiora rerum initia ducentibus fatis, primo in Macedoniam venisse, inde in Siciliam quaerentem sedes delatum, ab Sicilia classe ad Laurentem agrum tenuisse. Troia et huic loco nomen est. Ibi egressi Troiani, ut quibus ab immenso prope errore nihil praeter arma et naves superesset, cum praedam ex agris agerent, Latinus rex Aboriginesque qui tum ea tenebant loca ad arcendam vim advenarum armati ex urbe atque agris concurrunt. […]Ormai anzitutto è noto che, presa Troia, si infierì contro i superstiti Troiani, (che) gli Achei si astenessero dal ricorrere al diritto di guerra nei confronti di due, Enea e Antenore, sia per il diritto di un’antica ospitalità sia perché erano sempre stati sostenitori della pace e della restituzione di Elena; dopo varie vicendecon una moltitudine di Eneti che, scacciati dalla Paflagonia con una sedizione, perduto il re Pilemone presso Troia, cercavano delle sedi e un comandante era giunto nel golfo più interno del mare Adriatico, e respinti gli Euganei che abitavano tra il mare e le Alpi, gli Eneti e i Troiani avevano occupato quelle terre. Il primo luogo in cui sbarcarono si chiama Troia e il villaggio ha quindi il nome Troiano: tutta la popolazione è chiamata “Veneti”. Enea esule dalla patria per una simile disfatta ma conducendolo i fati a dare inizio a eventi più grandi, dapprima era giunto in Macedonia, poi fu trascinato in Sicilia cercando delle sedi, dalla Sicilia con una flotta si diresse verso il territorio di Laurento. Anche questo Luogo si chiama Troia. Entrati là i Troiani, siccome per il vagare quasi immenso non restava loro niente eccetto che le armi e le navi, facendo bottino dei territori, il re Latino e gli Arborigeni che allora occupavano quei luoghi, armati per respingere l’attacco degli stranieri accorsero dalla città e dai campi. […]

III

[…] Is Numitorem atque Amulium procreat, Numitori, qui stirpis maximus erat, regnum vetustum Silviae gentis legat. Plus tamen vis potuit quam voluntas patris aut verecundia aetatis: pulso fratre Amulius regnat. Addit sceleri scelus: stirpem fratris virilem interemit, fratris filiae Reae Silviae per speciem honoris cum Vestalem eam legisset perpetua virginitate spem partus adimit.[…] Questo dà alla luce Numitore e Amulio, (e) conscegna l’antico regno della gens Silvia a Numitore, che era il più grande della famiglia. Tuttavia la forza poté più della volontà del padre o del rispetto dell’età: cacciato il fratello, Amulio diventa re. Delitto aggiunge a delitto: fa assassinare i figli di suo fratello, (e) a Rea Silvia, la figlia del fratello, col pretesto di innalzarla a una grande dignità, avendola costretta come Vestale a una verginità perpetua, toglie (ogni) speranza di prole.

IV – Romolo e Remo

Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium. Vi compressa Vestalis cum geminum partum edidisset, seu ita rata seu quia deus auctor culpae honestior erat, Martem incertae stirpis patrem nuncupat. Sed nec di nec homines aut ipsam aut stirpem a crudelitate regia vindicant: sacerdos vincta in custodiam datur, pueros in profluentem aquam mitti iubet. Forte quadam divinitus super ripas Tiberis effusus lenibus stagnis nec adiri usquam ad iusti cursum poterat amnis et posse quamuis languida mergi aqua infantes spem ferentibus dabat. Ita velut defuncti regis imperio in proxima alluuie ubi nunc ficus Ruminalis est-Romularem vocatam ferunt-pueros exponunt. Vastae tum in his locis solitudines erant. Tenet fama cum fluitantem alveum, quo eiti erant pueri, tenuis in sicco aqua destituisset, lupam sitientem ex montibus qui circa sunt ad puerilem vagitum cursum flexisse; eam submissas infantibus adeo mitem praebuisse mammas ut lingua lambentem pueros magister regii pecoris invenerit- Faustulo fuisse nomen ferunt-ab eo ad stabula Larentiae uxori educandos datos. Sunt qui Larentiam volgato corpore lupam inter pastores vocatam putent; inde locum fabulae ac miraculo datum. Ita geniti itaque educati, cum primum adolevit aetas, nec in stabulis nec ad pecora segnes venando peragrare saltus. Hinc robore corporibus animisque sumpto iam non feras tantum subsistere sed in latrones praeda onustos impetus facere pastoribusque rapta dividere et cum his crescente in dies grege iuvenum seria ac iocos celebrare.Ma era il destino, mi pare, a volere la nascita di una città tanto grande e l’inizio del più potente degli imperi, secondo soltanto a quello degli dei. Essendo stata violentata e avendo partorito due gemelli, la Vestale, o perché ne era realmente convinta o perché era per lei più onorevole attribuire a un dio la responsabilità della colpa, dichiara che è Marte il padre di quei bambini. Né gli dei né gli uomini pongono tuttavia lei e i bimbi al riparo dalla crudeltà del re: ordina infatti che la sacerdotessa venga posta in catene e che i neonati siano gettati nel fiume. Per un caso straordinario, voluto dagli dei, il Tevere era straripato e aveva dato origine a paludi che non permettevano di arrivare sino al letto normale del fiume, ma che lasciavan credere ai sicari che quell’acuq, per quanto immobile e stagnate, bastasse ad affogare i piccoli. Così pongono i bimbi nello stagno più vicino, dove ora c’è il fico Ruminale (dicono che si chiamasse Romulare), sicuri di aver eseguito il compito loro affidato. Quei luoghi erano allora del tutto disabitati. È ancora viva la tradizione secondo cui, dopo che per la scarsità d’acqua il cesto con i gemelli rimase all’asciutto, una lupa assetata discesa dalle montagne vicine, indirizzò i suoi passi verso i vagiti dei neonati e offrì loro le sue mammelle, mansueta al punto che un pastore del regio gregge (dicono che si chiamasse Faustolo) la trovò mentre li lambiva con la lingua; egli li portò alle stalle e li affidò a sua moglie Larenzia, perché li allevasse. Alcuni pensano che i pastori chiamassero “lupa” Laurenzia perché si prostituiva e che di qui sarebbe derivato lo spunto per la straordinaria leggenda. Così generati e così allevati, raggiunta che ebbero la giovinezza, svolgevano alacremente il loro lavoro nelle stalle e presso il gregge e amavano andare a caccia nei boschi. Irrobustiti nel corpo e nello spirito, non si lamentavano ad affrontare le fiere, ma assalivano anche i briganti carichi di preda, dividendo poi il bottino fra i pastori. Con questi spartivano lavoro e svago e ogni giorno il gruppo dei giovani si faceva più numeroso.

XVI

His immortalibus editis operibus, cum ad exercitum recensendum contionem in campo ad Caprae paludem haberet, subito coorta tempestas cum magno fragore tonitribusque tam denso regem operuit nimbo ut conspectum eius contioni abstulerit; nec deinde in terris Romulus fuit. Romana pubes, sedato tandem pavore, postquam ex tam turbido die serena et tranquilla lux rediit, ubi vacuam sedem regiam vidit, etsi satis crdebai patribus qui proxumi steterant sublimem raptum procella, tamen velut orbitatis metu icta maestum aliquandiu silentium obtinuit. Deinde a paucis initio facto, deum deo natum, regen parentemque uris Romanae salvere universi Romulum iubent; pacem precibus exposcunt, ut volens propitius suam semper sospitet progeniem. Fuisse credo tum quoque aliquos qui siscerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manavit enim haec quoque, sed perobscura fama; illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit. Et consilio etiam unius hominis addita rei dicitur fides. Namque Proculus Iulius, sollicita civitate desiderio regis et infensa patribus, gravis, ut traditur, quamvis magnae rei auctor, in contionem prodit. “Romulus” -inquit,- “Quirites,” parens urbis huius, prima hodierna luce caelo repente delapsus se mihi obvium dedit. Cum perfusus horrore venerabundusque adstitissem, petens precibus ut contra intueri fas esset, “Abi, nuntia” inquit “Romanis caelestes ita velle, ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarem colant sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis Romanis resistere posse” “Haec” inquit “locutus sublimis abiit” Mirum quantum illi viro nuntianti haec fides fuerit quamque desiderium Romuli apud plebem exercitumque facta fide immortalitatis lenitum sit.Compiute queste opere immortali, mentre per passare in rassegna l’esercito, aveva riunito un’assemblea nel campo Martio, presso la palude della Capra, una improvvisa tempesta con grande fragore di tuoni, avvolse il re in un cosi’ denso nembo che lo sottrasse alla vista dell’assemblea; ne’, in seguito, Romolo comparve sulla terra. La gioventu’ romana, sedata finalmente la paura, dopo che da un giorno cosi’ torbido ritorno’ una luce serena e tranquillizzante, quando vide vuoto il seggio del re, sebbene credesse ai senatori piu’ vicini al re che era stato rapito dalla tempesta, come presa dal timore di rimanerne privata, resto’ per un po’ in mesto silenzio. Quindi iniziando da pochi, tutti stabilirono di salutare Romolo come un dio nato da un dio, re e padre della citta’ di Roma e con le preghiere invocarono la pace, come desiderando che guardasse sempre piu’ propizio la sua progenie. Credo che vi siano stati allora alcuni che segretamente arguirono che il re fosse stato fatto a pezzi dalle mani dei senatori; si diffuse anche questa diceria, ma, molto oscura ne e’ la fama; l’ammirazione per un uomo e il timore del presente, dettero valore all’altra versione Infatti, mentre la cittadinanza era angustiata per la mancanza del re e ostile ai patrizi, si fece avanti nell’assemblea Giunio Proculo, uomo serio, come si dice e di grande autorita’, sebbne il fatto fosse straordinario e disse: “Romolo, o Quiriti, padre di questa citta’, sceso sul far di questo giorno dal cielo, mi e’ venuto incontro. Mentre, essendo rimasto immobile, pervaso da terrore e in atto di venerazione chiedendogli con preghiere di consentirmi di guardarlo, disse “Va e annuncia ai Romani che cosi’ vogliono gli dei del cielo, che la mia Roma sia signora del mondo intero e che coltivino l’arte militare e sappiano e tramandino ai posteri che nessuna umana potenza potra’ resistere alle armi di Roma.” Dette queste parole se ne ando’ in cielo.” E’ incredibile quanta fede fu tributata a quell’uomo che annunciava queste cose e quanto si allento’ il dolore della plebe e dell’esercito, ammessa la sua immortalita’.

XVIII

Inclita iustitia religioque ea tempestate Numae Pompili erat. Curibus Sabinis habitabat, consultissimus vir, ut in illa quisquam esse aetate poterat, omnis divini atque humani iuris. Auctorem doctrinae eius, quia non exstat alius, falso Samium Pythagoram edunt, quem Seruio Tullio regnante Romae centum amplius post annos in ultima Italiae ora circa Metapontum Heracleamque et Crotona iuvenum aemulantium studia coetus habuisse constat. Ex quibus locis, etsi eiusdem aetatis fuisset, quae fama in Sabinos? Aut quo linguae commercio quemquam ad cupiditatem discendi excivisset? Quoue praesidio unus per tot gentes dissonas sermone moribusque pervenisset? Suopte igitur ingenio temperatum animum virtutibus fuisse opinor magis instructumque non tam peregrinis artibus quam disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum, quo genere nullum quondam incorruptius fuit. Audito nomine Numae patres Romani, quamquam inclinari opes ad Sabinos rege inde sumpto videbantur, tamen neque se quisquam nec factionis suae alium nec denique patrum aut civium quemquam praeferre illi viro ausi, ad unum omnes Numae Pompilio regnum deferendum decernunt. Accitus, sicut Romulus augurato urbe condenda regnum adeptus est, de se quoque deos consuli iussit. Inde ab augure, cui deinde honoris ergo publicum id perpetuumque sacerdotium fuit, deductus in arcem, in lapide ad meridiem versus consedit. Augur ad laevam eius capite uelato sedem cepit, dextra manu baculum sine nodo aduncum tenens quem lituum appellarunt. Inde ubi prospectu in urbem agrumque capto deos precatus regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit; signum contra quo longissime conspectum oculi ferebant animo finiuit; tum lituo in laevam manum translato, dextra in caput Numae imposita, ita precatus est: “Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium cuius ego caput teneo regem Romae esse, uti tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines quod feci.” Tum peregit verbis auspicia quae mitti vellet. Quibus missis declaratus rex Numa de templo descendit.In quel periodo Numa Pompilio godeva di grande rispetto per il suo senso di giustizia e di religiosità. Viveva a Cures, in terra sabina, ed era esperto, più di qualsiasi suo contemporaneo, di tutti gli aspetti del diritto divino e di quello umano. C’è chi sostiene, in assenza di altri nomi, ch’egli fosse debitore della propria cultura a Pitagora di Samo. La tesi è però un falso perché è noto a tutti che fu durante il regno di Servio Tullio (cioè più di cento anni dopo) e nell’estremo sud Italia – nei dintorni di Metaponto, Eraclea e Crotone – che Pitagora si circondò di gruppi di giovani ansiosi di conoscere a fondo le sue dottrine. E da quei lontani paesi, pur ammettendo che Pitagora fosse vissuto nello stesso periodo, la sua fama come avrebbe potuto raggiungere i Sabini? E in che lingua comune avrebbe potuto indurre qualcuno a farsi una cultura con lui? E sotto la scorta di chi un uomo avrebbe potuto compiere da solo quel viaggio attraverso così tanti popoli diversi per lingua e usanze? Per tutti questi motivi sono incline a credere che Numa fosse spiritualmente portato alla virtù per una sua naturale disposizione e che la sua cultura non avesse niente a che vedere con insegnamenti di stranieri, ma dipendesse dall’austera e severa educazione degli antichi Sabini, il popolo moralmente più puro dell’antichità. Non appena i senatori romani sentirono il nome di Numa, si resero conto che, con un re proveniente dalla loro etnia, l’ago della bilancia politica si sarebbe spostato verso i Sabini. Ciò nonostante, visto che nessuno avrebbe osato preferire a quell’uomo se stesso, uno della propria fazione o qualche altro senatore o privato cittadino, decidono all’unanimità di affidare il regno a Numa Pompilio. Convocato a Roma, egli ordinò che, così come Romolo solo dopo aver tratto gli auspici aveva fondato la sua città e ne aveva assunto il governo, allo stesso modo, anche nel suo caso, venissero consultati gli dèi. Quindi, preceduto da un augure (cui, da quella circostanza in poi, questa funzione onorifica rimase permanentemente una delle sue attribuzioni ufficiali), Numa fu condotto sulla cittadella e fatto sedere su una pietra con lo sguardo rivolto a meridione. L’augure, a capo coperto e reggendo con la destra un bastone ricurvo e privo di nodi il cui nome era #lituus#, prese posto alla sua sinistra. Quindi, dopo aver abbracciato con uno sguardo la città e le campagne intorno, invocò gli dèi e divise la volta del cielo, da oriente a occidente, con una linea ideale, specificando che le regioni a destra erano quelle meridionali e quelle di sinistra le settentrionali. Poi fissò mentalmente, nella parte di fronte a sé, un punto di riferimento il più lontano a cui potesse giungere con lo sguardo. Quindi, fatto passare il #lituus #nella mano sinistra e piazzata la destra sulla testa di Numa, rivolse questa preghiera: “O Giove padre, se è volontà del cielo che Numa Pompilio, qui presente e del quale io sto toccando la testa, sia re di Roma, dacci qualche segno manifesto entro i limiti che io ho or ora tracciato.” Poi specificò gli auspici che voleva venissero inviati. E quando questi apparvero, Numa fu dichiarato re e poté scendere dalla collina augurale.

XIX

Qui regno ita potitus urbem novam conditam vi et armis, iure eam legibusque ac moribus de integro condere parat. Quibus cum inter bella adsuescere videret non posse–quippe efferari militia animos–, mitigandum ferocem populum armorum desuetudine ratus, Ianum ad infimum Argiletum indicem pacis bellique fecit, apertus ut in armis esse civitatem, clausus pacatos circa omnes populos significaret. Bis deinde post Numae regnum clausus fuit, semel T. Manlio consule post Punicum primum perfectum bellum, iterum, quod nostrae aetati di dederunt ut videremus, post bellum Actiacum ab imperatore Caesare Augusto pace terra marique parta.– Clauso eo cum omnium circa finitimorum societate ac foederibus iunxisset animos, positis externorum periculorum curis, ne luxuriarent otio animi quos metus hostium disciplinaque militaris continuerat, omnium primum, rem ad multitudinem imperitam et illis saeculis rudem efficacissimam, deorum metum iniciendum ratus est. Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non posset, simulat sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu quae acceptissima dis essent sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum praeficere. Atque omnium primum ad cursus lunae in duodecim menses discribit annum; quem quia tricenos dies singulis mensibus luna non explet desuntque sex dies solido anno qui solstitiali circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita dispensavit, ut vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis omnium annorum spatiis dies congruerent. Idem nefastos dies fastosque fecit quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat.Roma era una città di recente fondazione, nata e cresciuta grazie alla forza delle armi: Numa, divenutone re nel modo che si è detto, si prepara a dotarla di un sistema giuridico e di un codice morale (fondamenti di cui fino a quel momento era stata priva). Ma rendendosi conto che chi passa la vita tra una guerra e l’altra non riesce ad abituarsi facilmente a queste cose perché l’atmosfera militare inselvatichisce i caratteri, pensò che fosse opportuno mitigare la ferocia del suo popolo disabituandolo all’uso delle armi. Per questo motivo fece costruire ai piedi dell’Argileto un tempio in onore di Giano elevandolo a simbolo della pace e della guerra: da aperto avrebbe indicato che la città era in stato di guerra, da chiuso che la pace regnava presso tutti i popoli dei dintorni. Dal regno di Numa in poi fu chiuso soltanto due volte: la prima al termine della prima guerra punica, durante il consolato di Tito Manlio, la seconda (e gli dèi hanno concesso alla nostra generazione di esserne testimoni oculari) dopo la battaglia di Azio, quando cioè l’imperatore Cesare Augusto ristabilì la pace per mare e per terra. Numa lo chiuse dopo essersi assicurato con trattati di alleanza la buona disposizione di tutte le popolazioni limitrofe ed eliminando le preoccupazioni di pericoli provenienti dall’esterno. Così facendo, però, si correva il rischio che animi resi vigili dalla disciplina militare e dalla continua paura del nemico si rammollissero in un ozio pericoloso. Per evitarlo, egli pensò che la prima cosa da fare fosse instillare in essi il timore reverenziale per gli dèi, espediente efficacissimo nei confronti di una massa ignorante e ancora rozza in quei primi anni. Dato che non poteva penetrare nelle loro menti senza far ricorso a qualche racconto prodigioso, si inventò di avere degli incontri notturni con la dea Egeria e riferì che quest’ultima lo aveva esortato a istituire dei rituali sacri particolarmente graditi agli dèi, nonché a preporre a ciascuno di essi certi officianti specifici. Prima di tutto, basandosi sul corso della luna, divide l’anno in dodici mesi. Ma dato che i singoli mesi lunari non si compongono di trenta giorni e che ce ne sono “undici” di differenza rispetto a un intero anno calcolato in base alla rivoluzione del sole, egli aggiunse dei mesi intercalari in maniera tale che il ventesimo anno si trovassero rispetto al sole nella stessa posizione dalla quale erano partiti e che così la durata di tutti gli anni tornasse perfettamente. Stabilì anche i giorni fasti e quelli nefasti, poiché sarebbe stato utile, di quando in quando, sospendere ogni attività pubblica.

XX

Tum sacerdotibus creandis animum adiecit, quamquam ipse plurima sacra obibat, ea maxime quae nunc ad Dialem flaminem pertinent. Sed quia in civitate bellicosa plures Romuli quam Numae similes reges putabat fore iturosque ipsos ad bella, ne sacra regiae vicis desererentur flaminem Iovi adsiduum sacerdotem creavit insignique eum ueste et curuli regia sella adornavit. Huic duos flamines adiecit, Marti unum, alterum Quirino, virginesque Vestae legit, Alba oriundum sacerdotium et genti conditoris haud alienum. His ut adsiduae templi antistites essent stipendium de publico statuit; virginitate aliisque caerimoniis venerabiles ac sanctas fecit. Salios item duodecim Marti Gradiuo legit, tunicaeque pictae insigne dedit et super tunicam aeneum pectori tegumen; caelestiaque arma, quae ancilia appellantur, ferre ac per urbem ire canentes carmina cum tripudiis sollemnique saltatu iussit. Pontificem deinde Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica priuataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec caelestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus alIove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Ad ea elicienda ex mentibus divinis Iovi Elicio aram in Aventino dicavit deumque consuluit auguriis, quae suscipienda essent.Quindi rivolse la sua attenzione ai sacerdoti: bisognava nominarli, nonostante egli stesso fosse preposto a parecchi riti sacri, soprattutto quelli che oggi sono di competenza del flamine Diale. Ma poiché riteneva che in un paese bellicoso i re del futuro sarebbero stati più simili a Romolo che non a Numa e sarebbero andati di persona a combattere, non voleva che passassero in secondo piano le attribuzioni sacerdotali del re. Quindi designò un flamine a sacerdote unico e perpetuo di Giove, dotandolo di una veste speciale e della sedia curule, simbolo dell’autorità regale. A lui aggiunse altri due flamini, uno per Marte e uno per Quirino. Inoltre sceglie delle vergini da porre al servizio di Vesta, sacerdozio questo di origine albana e in qualche modo connesso con la famiglia del fondatore. Per permettere loro di dedicarsi esclusivamente al servizio del tempio, fece assegnare a esse uno stipendio dallo stato e, a causa della verginità e di altre cerimonie rituali, le rese sacre e inviolabili. Scelse anche dodici Salii per Marte Gradivo e garantì loro la possibilità di distinguersi vestendo una tunica ricamata e provvista di una placca di bronzo sul petto. Inoltre ordinò loro di portare gli scudi caduti dal cielo (noti come ancilia) e di compiere processioni in città cantando inni accompagnati da solenni passi di danza in tre tempi. Poi nomina pontefice un senatore, Numa Marcio, figlio di Marcio, cui fornisce dettagliate istruzioni scritte per tutte le cerimonie sacre: i tipi di vittime, i giorni prescritti, i templi in cui celebrare i vari riti e le risorse cui fare capo per mantenerne le spese. Subordinò all’autorità del pontefice anche tutte le altre cerimonie di natura pubblica e privata, in modo tale che la gente comune avesse un qualche punto di riferimento e che nessun elemento della sfera religiosa dovesse subire alterazioni di sorta, dovute a negligenze dei riti nazionali o all’adozione di culti di importazione. Inoltre il pontefice doveva diventare un esperto e attento interprete non solo delle cerimonie legate alle divinità celesti, ma anche delle pratiche funerarie, di quelle di propiziazione dei mani e dell’interpretazione dei presagi legati ai fulmini o ad altre manifestazioni. Per desumere questi mistici segreti dallo spirito dei numi, innalzò sull’Aventino un altare in onore di Giove Eliio e fece consultare il dio attraverso degli auguri per vedere di quali prodigi si dovesse tener conto.

XXV – Combattimento fra Orazi e Curiazi

Foedere icto trigemini, sicut conuenerat, arma capiunt. Cum sui utrosque adhortarentur, deos patrios, patriam ac parentes, quidquid civium domi, quidquid in exercitu sit, illorum tunc arma, illorum intueri manus, feroces et suopte ingenio et pleni adhortantium vocibus in medium inter duas acies procedunt. Consederant utrimque pro castris duo exercitus, periculi magis praesentis quam curae expertes; quippe imperium agebatur in tam paucorum virtute atque fortuna positum. Itaque ergo erecti suspensique in minime gratum spectaculum animo incenduntur. Datur signum infestisque armis velut acies terni iuvenes magnorum exercituum animos gerentes concurrunt. Nec his nec illis periculum suum, publicum imperium seruitiumque obuersatur animo futuraque ea deinde patriae fortuna quam ipsi fecissent. Vt primo statim concursu increpuere arma micantesque fulsere gladii, horror ingens spectantes perstringit et neutro inclinata spe torpebat vox spiritusque. Consertis deinde manibus cum iam non motus tantum corporum agitatioque anceps telorum armorumque sed volnera quoque et sanguis spectaculo essent, duo Romani super alium alius, volneratis tribus Albanis, exspirantes corruerunt. Ad quorum casum cum conclamasset gaudio Albanus exercitus, Romanas legiones iam spes tota, nondum tamen cura deseruerat, exanimes vice unius quem tres Curiatii circumsteterant. Forte is integer fuit, ut universis solus nequaquam par, sic adversus singulos ferox. Ergo ut segregaret pugnam eorum capessit fugam, ita ratus secuturos ut quemque volnere adfectum corpus sineret. Iam aliquantum spatii ex eo loco ubi pugnatum est aufugerat, cum respiciens videt magnis interuallis sequentes, unum haud procul ab sese abesse. In eum magno impetu rediit; et dum Albanus exercitus inclamat Curiatiis uti opem ferant fratri, iam Horatius caeso hoste victor secundam pugnam petebat. Tunc clamore qualis ex insperato fauentium solet Romani adiuuant militem suum; et ille defungi proelio festinat. Prius itaque quam alter-nec procul aberat-consequi posset, et alterum Curiatium conficit; iamque aequato Marte singuli supererant, sed nec spe nec viribus pares. Alterum intactum ferro corpus et geminata victoria ferocem in certamen tertium dabat: alter fessum volnere, fessum cursu trahens corpus victusque fratrum ante se strage victori obicitur hosti. Nec illud proelium fuit. Romanus exsultans “Duos” inquit, “fratrum manibus dedi; tertium causae belli huiusce, ut Romanus Albano imperet, dabo.” Male sustinenti arma gladium superne iugulo defigit, iacentem spoliat. Romani ouantes ac gratulantes Horatium accipiunt, eo maiore cum gaudio, quo prope metum res fuerat. Ad sepulturam inde suorum nequaquam paribus animis vertuntur, quippe imperio alteri aucti, alteri dicionis alienae facti. Sepulcra exstant quo quisque loco cecidit, duo Romana uno loco propius Albam, tria Albana Romam versus sed distantia locis ut et pugnatum est.Concluso il patto, i tre gemelli, come era stato convenuto, prendono le armi. Fra le esortazioni dei rispettivi popoli che ricordavano che gli dei, la patria, i genitori e i concittadini tutti, quelli rimasti nelle città e quelli in armi, tenevano in quel momento gli occhi fissi alle loro armi e alle loro braccia, essi, animosi già per natura e infiammati dalle grida di incitamento, s’avanzano in mezzo ai due eserciti. I soldati si erano schierato davanti ai rispettivi accampamenti, senza timore per il presente, ma non senza ansia, poiché era in gioco l’egemonia, affidata al valore e alla fortuna di così pochi uomini. E dunque seguono tutti in piedi e con grande tensione quello spettacolo per loro affatto piacevole. Viene dato il segnale e con le armi in pungo, come due reparti schierati, i tre giovani si lanciano all’attacco con l’ardore di due eserciti. Né gli uni né gli altri si preoccupano del rischi personale: pensano all’egemonia e alla schiavitù del loro popolo, pensano che la sorte dellla patria sarà quella che proprio loro avranno saputo procurare. Appena risuonarono le armi al primo scontro e corrusche balenarono le spade, una grande angoscia strinse il cuore degli spettatori: le speranza erano pari per entrambi e quindi la tensione troncava la voce e mozzava il respiro. Nel vivo della mischia, quando ormai l’attenzione non si appuntava più soltanto ai movimenti del corpo o all’incerto incrociarsi della armi, ma anche alle ferite e al sangue, due Romani caddero l’uno sull’altro morti, mentre gli Albani erano tutti e tre soltatno feriti. A tale evento levò grida di giubilo l’esercito albano, mentre abbandonarono del tutto la speranza le legioni romane, rimanendo tuttavia in ansia e col fiato sospeso per la sorte di quel solo Orazio, che i tre Curiazi avevano circondato. Egli era per avventura romasto illeso e quindi, se pure non era in g rado di far fronte dal solo a tutti e tre insieme, era però imbattibile contro ciascuno singolarmente preso. E quindi, per affrontarli separatamente, si diede alla fuga, sicuro che lo avrebbero inseguito, per quanto lo avrebbe permesso a ciascuno il corpo indebolito per le ferite. Già aveva percorso un lungo tratto dal luogo del combattimento quando, voltandosi indietro, vede che gli inseguitori sono a gran distanza l’uno dall’altro e che il primo non è lontano. Si rivolge quindi contro di lui con gran violeza e mentre l’esercito albano grida ai Curiazi di portar aiuto al fratello, l’Orazio, ucciso il nemico, si prepara ad affrontare da vincitore il secondo duello. I Romani allora incitano il loro compagno con gran clamore, simile a quello dei tifosi che applaudono per una vittoria insperata; e quello si affretta a concludere lo scontro. Prima dunque che il terzo – non era lontano – potesse raggiungerlo, uccide anche il secondo Curiazio. Ormai si erano riequilibrate le sorti poiché era rimasto un uomo per parte, sebbene in condizioni e con speranze ben diverse: l’uno si presentava al terzo combattimento pieno di baldanza per l’integrità fisica e la duplice vittoria, l’altro si offriva ai colpi del nemico vincente, trascinando il corpo sfinito per le ferite e stremato per la corsa, con la sconfitta già nel cuore a causa della precedente uccisione dei suoi fratelli. Non ci fu lotta. Il Romano esultante esclamò: “Due li ho offerti ai Mani dei miei fratelli, il terzo lo offro alla causa che è alla base di questo combattimento, affinché i Romani esercitino il dominio sugli Albani” Quello a malapena riusciva a reggere lo scudo, e Orazio, sovrastandolo, gli piantò la spada nella gola; quindi spogliò il suo cadavere.

XXVI

Priusquam inde digrederentur, roganti Mettio ex foedere icto quid imperaret, imperat Tullus uti iuventutem in armis habeat: usurum se eorum opera si bellum cum Veientibus foret. Ita exercitus inde domos abducti. Princeps Horatius ibat, trigemina spolia prae se gerens; cui soror virgo, quae desponsa, uni ex Curiatiis fuerat, obuia ante portam Capenam fuit, cognitoque super umeros fratris paludamento sponsi quod ipsa confecerat, soluit crines et flebiliter nomine sponsum mortuum appellat. movet feroci iuveni animum comploratio sororis in victoria sua tantoque gaudio publico. Stricto itaque gladio simul verbis increpans transfigit puellam. “Abi hinc cum immaturo amore ad sponsum,” inquit, “oblita fratrum mortuorum uiuique, oblita patriae. Sic eat quaecumque Romana lugebit hostem.” Atrox visum id facinus patribus plebique, sed recens meritum facto obstabat. Tamen raptus in ius ad regem. Rex ne ipse tam tristis ingratique ad volgus iudicii ac secundum iudicium supplicii auctor esset, concilio populi advocato “Duumuiros” inquit, “qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem facio.” Lex horrendi carminis erat: “Duumuiri perduellionem iudicent; si a duumuiris provocarit, provocatione certato; si uincent, caput obnubito; infelici arbori reste suspendito; verberato vel intra pomerium vel extra pomerium.” Hac lege duumuiri creati, qui se absoluere non rebantur ea lege ne innoxium quidem posse, cum condemnassent, tum alter ex iis “Publi Horati, tibi perduellionem iudico” inquit. “I, lictor, colliga manus.” Accesserat lictor iniciebatque laqueum. Tum Horatius auctore Tullo, clemente legis interprete, “Provoco” inquit. Itaque provocatione certatum ad populum est. Moti homines sunt in eo iudicio maxime P. Horatio patre proclamante se filiam iure caesam iudicare; ni ita esset, patrio iure in filium animaduersurum fuisse. Orabat deinde ne se quem paulo ante cum egregia stirpe conspexissent orbum liberis facerent. Inter haec senex iuvenem amplexus, spolia Curiatiorum fixa eo loco qui nunc Pila Horatia appellatur ostentans, “Huncine” aiebat, “quem modo decoratum ouantemque victoria incedentem vidistis, Quirites, eum sub furca vinctum inter verbera et cruciatus videre potestis? quod vix Albanorum oculi tam deforme spectaculum ferre possent. I, lictor, colliga manus, quae paulo ante armatae imperium populo Romano pepererunt. I, caput obnube liberatoris urbis huius; arbore infelici suspende; verbera vel intra pomerium, modo inter illa pila et spolia hostium, vel extra pomerium, modo inter sepulcra Curiatiorum; quo enim ducere hunc iuvenem potestis ubi non sua decora eum a tanta foeditate supplicii vindicent?” Non tulit populus nec patris lacrimas nec ipsius parem in omni periculo animum, absolueruntque admiratione magis virtutis quam iure causae. Itaque ut caedes manifesta aliquo tamen piaculo lueretur, imperatum patri ut filium expiaret pecunia publica. Is quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit iuvenem. Id hodie quoque publice semper refectum manet; sororium tigillum. Vocant. Horatiae sepulcrum, quo loco corruerat icta, constructum est saxo quadrato.Prima di allontanarsi, Mezio, in base alle clausole del trattato, chiede quali siano gli ordini e Tullo gli ingiunge di tenere i giovani sotto le armi perché avrebbe avuto bisogno delle loro prestazioni in caso di guerra contro Veio. Quindi gli eserciti vengono ricondotti negli accampamenti. Alla testa dei Romani marciava Orazio col suo triplice bottino. Di fronte alla porta Capena gli andò incontro sua sorella, ancora nubile, che era stata promessa in sposa a uno dei Curiazi. Appena riconobbe sulle spalle del fratello la mantella militare del fidanzato che lei stessa aveva confezionato, si sciolse i capelli e in lacrime ripeté sommessamente il nome del caduto. Il suo pianto, proprio nel momento del tripudio pubblico per la vittoria, irrita l’animo del giovane impetuoso che, estratta la spada, trafigge la ragazza rivolgendole nel contempo queste parole di biasimo: “Vattene con la tua bambinesca infatuazione, vattene dal tuo fidanzato, tu che riesci a dimenticare i tuoi fratelli morti e quello vivo e addirittura la patria. Possa così morire ogni romana che piangerà il nemico.” L’atroce delitto sembrò orribile ai senatori e alla plebe, ma a ciò si contrapponeva la prodezza di poche ore prima. Fu comunque preso e portato di fronte al re per essere processato. Questi, non volendosi assumere l’intera responsabilità di una sentenza così penosa e impopolare nonché della condanna a morte che ne sarebbe seguita, convocò l’assemblea del popolo e disse: “Secondo quanto è prescritto dalla legge, nomino una commissione di duumviri e gli affido il compito di processare Orazio per lesa maestà.” Il testo della legge era spaventoso: “I delitti di lesa maestà siano giudicati dai duumviri. Se l’imputato ricorre in appello che l’appello dia luogo a una discussione. Nel caso prevalgano i duumviri, si proceda a coprirne il capo; quindi se ne leghi il corpo a un albero stecchito e lo si fustighi sia dentro sia fuori il pomerio.” In virtù di questa disposizione, vengono nominati i duumviri. Con una legge del genere sembrava loro impossibile assolvere anche un innocente. Così, dopo averlo giudicato colpevole, uno di essi disse: “Publio Orazio,ti condanno per lesa maestà. Vai littore, legagli le mani.” Il littore gli si era avvicinato e stava per mettergli il laccio, quando Orazio, su consiglio di Tullo, più clemente nell’interpretare la legge, disse: “Ricorro in appello.” Il dibattito si tenne così di fronte al popolo e la gente fu particolarmente influenzata dalla testimonianza del padre di Orazio il quale sostenne che la morte della figlia era stata giusta e aggiunse che in caso contrario egli avrebbe fatto ricorso alla sua autorità di padre e punito il figlio Orazio con le sue stesse mani. Poi implorò il popolo di non orbare anche dell’ultimo figlio un uomo che fino a poco tempo prima la gente aveva visto circondato da una notevole prole. Dicendo questo, il vecchio andò ad abbracciare il giovane e, indicando le spoglie dei Curiazi appese nel punto che ancor oggi si chiama Trofeo di Orazio, esclamò: “Quest’uomo che poco fa avete ammirato incedere nell’ovazione trionfale della vittoria, o Quiriti, ce la farete a vederlo legato e fustigato sotto una forca? Uno spettacolo così ingrato che a malapena gli Albani riuscirebbero a tollerarne la vista. Vai littore, incatena queste mani che poco fa hanno dato al popolo romano la supremazia. Vai, incappuccia la testa al liberatore di questa città e legalo a un albero stecchito. Fustigalo sia dentro il pomerio – e quindi tra i trofei e le spoglie nemiche -, sia fuori di esso – e quindi tra le tombe dei Curiazi. Dove potreste portarlo questo giovane senza che la sua gloria gridi vendetta per l’onta di un simile verdetto?” Il popolo, incapace di resistere alle lacrime del padre e alla fermezza incrollabile del figlio di fronte a ogni pericolo, assolse Orazio più per l’ammirazione suscitata dalla sua prodezza che per la bontà della sua causa. E così, per purificare malgrado tutto il delitto flagrante con una qualche espiazione, al padre venne ordinato di compiere l’espiazione per il figlio a pubbliche spese. Per questo motivo egli offrì dei sacrifici espiatori che da quel momento divennero una tradizione peculiare della famiglia Orazia. Quindi eresse nella pubblica via una struttura di travi e, come se si fosse trattato di un giogo vero e proprio, vi fece passare sotto il figlio a capo coperto. La cosa esiste ncora e di tanto in tanto viene rimessa in sesto a spese dello stato: si chiama trave sororia. Quanto all’Orazia, le fu innalzato un sepolcro di pietre squadrate nel punto in cui era caduta sotto i colpi del fratello.

XXIX – L’espugnazione di Alba Longa

Inter haec iam praemissi Albam erant equites qui multitudinem traducerent Romam. Legiones deinde ductae ad diruendam urbem. Quae ubi intravere portas, non quidem fuit tumultus ille nec pavor, qualis captarum esse urbium solet, cum effractis portis stratisve ariete muris aut arce vi capta clamor hostilis et cursus per urbem armatorum omnia ferro flammaque miscet; sed silentium triste ac tacita maestitia ita defixit omnium animos ut prae metu quid relinquerent, quid secum ferrent deficiente consilio rogitantesque alii alios nunc in liminibus starent, nunc errabundi domos suas ultimum illud visuri pervagarentur. Ut vero iam equitum clamor exire iubentium instabat, iam fragor tectorum quae diruebantur ultimis urbis partibus audiebatur, pulvisque ex distantibus locis ortus velut nube inducta omnia impleverat, raptim quibus quisque poterat elatis, cum larem ac penates tectaque in quibus natus quisque educatusque esset relinquentes exirent, iam continens agmen migrantium impleverat vias, et conspectus aliorum mutua miseratione integrabat lacrimas, vocesque etiam miserabiles exaudiebantur mulierum praecipue, cum obsessa ab armatis templa augusta praeterirent ac velut captos relinquerent deos. Egressis urbe Albanis Romanus passim publica privataque omnia tecta adaequat solo, unaque hora quadringentorum annorum opus quibus Alba steterat excidio ac ruinis dedit; templis tamen deum – ita enim edictum ab rege fuerat – temperatum est.Tra questi già mandati avanti ad Alba c’erano i cavalieri che avevano portato la folla a Roma. Le legioni quindi furono condotte a distruggere la città. E quando esse varcarono le porte, non ci fu quel disordine o (quel) terrore, quale è solito essere caratteristico delle città espugnate, quando, sfondate le porte o abbattute le mura con l’ariete o presa la rocca con la forza, il frastuono dei nemici e la corsa dei soldati per la città mescola tutto al ferro e al fuoco, ma il triste silenzio e la tacita mestizia penetrò (ne)gli animi di tutti (gli abitanti della città) cosicché, venendo meno per la paura la capacità di decidere razionalmente su cosa lasciare e cosa portare con sé, chi chiedendo a uno, chi chiedendo a un altro (sul da farsi), ora stavano sulla soglia, ora vagavano per vedere quell’ultima volta le loro case. E già non appena il rumore dei cavalieri che ordinavano di uscire insisteva, ormai il fragore dei tetti che crollavano si udiva nei quartieri più lontani della città e la polvere che veniva da luoghi distanti, spinta come una nuvola, aveva riempito ogni cosa, portato via ciascuno ciò che aveva potuto, mentre i rimanenti uscivano nelle strade abbandonando il Lare, i Penati e le case, nei quali erano nati ed erano stati educati, già la colonna continua degli esiliati aveva riempito le strade e lo sguardo degli altri rinnovava le lacrime con reciproca compassione, e si sentivano l voci di quelli che compiangevano, soprattutto delle donne, ogni volta che passavano davanti ai templi augusti occupati dai soldati e abbandonavano gli dei come catturati. Usciti gli Albani dalla città, (l’esercito) romano rade al suolo dappertutto tutte le case pubbliche e private, in una sola ora diede alla distruzione e alla rovina l’opera di quattrocento anni, nei quali Alba aveva predominato; tuttavia risparmiarono i templi degli dei – così infatti era stato l’ordine da parte del re -.

XXXIV

Anco regnante Lucumo, vir impiger ac divitiis potens, Romam commigravit cupidine maxime ac spe magni honoris, cuius adipiscendi Tarquiniis–nam ibi quoque peregrina stirpe oriundus erat–facultas non fuerat. Demarati Corinthii filius erat, qui ob seditiones domo profugus cum Tarquiniis forte consedisset, uxore ibi ducta duos filios genuit. Nomina his Lucumo atque Arruns fuerunt. Lucumo superfuit patri bonorum omnium heres: Arruns prior quam pater moritur uxore gravida relicta. Nec diu manet superstes filio pater; qui cum, ignorans nurum ventrem ferre, immemor in testando nepotis decessisset, puero post aui mortem in nullam sortem bonorum nato ab inopia Egerio inditum nomen. Lucumoni contra, omnium heredi bonorum, cum divitiae iam animos facerent, auxit ducta in matrimonium Tanaquil, summo loco nata et quae haud facile iis in quibus nata erat humiliora sineret ea quo innupsisset. Spernentibus Etruscis Lucumonem exsule advena ortum, ferre indignitatem non potuit, oblitaque ingenitae erga patriam caritatis dummodo virum honoratum videret, consilium migrandi ab Tarquiniis cepit. Roma est ad id potissima visa: in novo populo, ubi omnis repentina atque ex virtute nobilitas sit, futurum locum forti ac strenuo viro; regnasse Tatium Sabinum, arcessitum in regnum Numam a Curibus, et Ancum Sabina matre ortum nobilemque una imagine Numae esse. Facile persuadet ut cupido honorum et cui Tarquinii materna tantum patria esset. Sublatis itaque rebus amigrant Romam. Ad Ianiculum forte ventum erat; ibi ei carpento sedenti cum uxore aquila suspensis demissa leviter alis pilleum aufert, superque carpentum cum magno clangore volitans rursus velut ministerio divinitus missa capiti apte reponit; inde sublimis abiit. Accepisse id augurium laeta dicitur Tanaquil, perita ut volgo Etrusci caelestium prodigiorum mulier. Excelsa et alta sperare complexa virum iubet: eam alitem ea regione caeli et eius dei nuntiam venisse; circa summum culmen hominis auspicium fecisse; levasse humano superpositum capiti decus ut divinitus eidem redderet. Has spes cogitationesque secum portantes urbem ingressi sunt, domicilioque ibi comparato L. Tarquinium Priscum edidere nomen. Romanis conspicuum eum novitas divitiaeque faciebant; et ipse fortunam benigno adloquio, comitate inuitandi beneficiisque quos poterat sibi conciliando adiuuabat, donec in regiam quoque de eo fama perlata est. Notitiamque eam breui apud regem liberaliter dextereque obeundo officia in familiaris amicitiae adduxerat iura, ut publicis pariter ac priuatis consiliis bello domique interesset et per omnia expertus postremo tutor etiam liberis regis testamento institueretur.Durante il regno di Anco, venne ad abitare a Roma Lucumone, personaggio intraprendente ed economicamente molto solido, attirato soprattutto dall’ambizione e dalla speranza di raggiungere posizioni di grande rilievo che non era riuscito a ottenere a Tarquinia (in quanto anche in quella città era uno straniero). Era figlio di Demarato di Corinto, il quale, fuggito dalla patria a séguito di disordini, si era stabilito per puro caso a Tarquinia e lì aveva preso moglie e messo al mondo due figli, i cui nomi erano Arrunte e Lucumone. Lucumone sopravvisse al padre e ne ereditò tutte le sostanze. Arrunte morì invece prima del genitore, lasciando la moglie incinta. Demarato non visse molto più a lungo del figlio e, ignorando che la nuora era incinta, morì senza ricordarsi del nipotino nel testamento. Il bambino nacque dopo la scomparsa del nonno e, non essendo destinato a ereditare, fu chiamato Egerio in ragione della sua miseranda condizione. In Lucumone, invece, nominato erede universale, la boriosa presupponenza dovuta alle sostanze ricevute aumentò ancora di più quando sposò un’esponente della più altolocata aristocrazia locale, Tanaquil, la quale non poteva ammettere che il suo matrimonio la declassasse dal rango in cui era nata. Gli Etruschi emarginavano Lucumone perché era straniero e figlio di un profugo. La moglie, non potendo tollerare quest’onta, mise da parte l’attaccamento innato per la patria e, pur di vedere onorato il marito, prese la decisione di emigrare da Tarquinia. Roma faceva in tutto al caso suo: in mezzo a gente nuova, dove si diventava nobili in fretta e in base ai meriti, ci sarebbe stato spazio per un uomo coraggioso e intraprendente. A Roma aveva regnato Tazio, un sabino; Numa, per farlo re, lo erano andati a cercare a Cures; Anco era figlio di madre sabina, e tra i ritratti degli antenati poteva vantare soltanto Numa. Non le è quindi difficile convincere un uomo ambizioso e per il quale Tarquinia era solo il luogo di nascita. Così, raccolte tutte le loro cose, partono alla volta di Roma. Quando arrivarono nei pressi del Gianicolo (un puro caso che successe lì), mentre erano seduti nel loro carro, un’aquila planò su di loro con una dolce cabrata e portò via il cappello a Lucumone. Poi, volteggiando sopra il carro ed emettendo versi acutissimi, come se stesse compiendo una qualche missione divina, si abbassò di nuovo e glielo rimise perfettamente in testa. Quindi sparì nell’alto del cielo. Si racconta che Tanaquil, essendo da buona etrusca una vera esperta di prodigi celesti, accolse con entusiasmo il presagio. Abbracciando il marito lo invita a sperare grandi cose, spiegandogli che quello era il senso dell’uccello, della parte del cielo da cui era arrivato e del dio da cui era stato inviato: segno che era stato tolto un ornamento posto sulla testa di un uomo, perché venisse ricollocato su ordine di un dio. Con in mente queste ottimistiche previsioni, entrarono a Roma. Lì trovarono casa e concordarono il nome da spacciare alla gente: Lucio Tarquinio Prisco. Agli occhi dei Romani faceva colpo per la sua provenienza e per la condizione economica. Lui, da par suo, aiutava la buona sorte rendendosi gradito a chiunque potesse grazie ai suoi modi affabili, alla generosa ospitalità e alla munificenza. A tal punto che la stima di cui era fatto oggetto arrivò fino alla reggia. E il re non lo apprezzò per quel che era finché la generosità e l’efficienza dimostrate nei servigi prestati non gli garantirono un posto tra gli amici più intimi, tanto da essere consultato per questioni di carattere pubblico e privato sia in pace che in guerra. E il re, dopo averlo messo alla prova in tutti i modi possibili, nel testamento lo nominò tutore dei propri figli.

LVIII – Lucrezia

Paucis interiectis diebus Sex. Tarquinius inscio Collatino cum comite uno Collatiam venit. Ubi exceptus benigne ab ignaris consilii cum post cenam in hospitale cubiculum deductus esset, amore ardens, postquam satis tuta circa sopitique omnes videbantur, stricto gladio ad dormientem Lucretiam venit sinistraque manu mulieris pectore oppresso “Tace, Lucretia” inquit; “Sex. Tarquinius sum; ferrum in manu est; moriere, si emiseris vocem”. Cum pavida ex somno mulier nullam opem, prope mortem imminentem videret, tum Tarquinius fateri amorem, orare, miscere precibus minas, versare in omnes partes muliebrem animum. Vbi obstinatam videbat et ne mortis quidem metu inclinari, addit ad metum dedecus: cum mortua iugulatum servum nudum positurum ait, ut in sordido adulterio necata dicatur. Quo terrore cum vicisset obstinatam pudicitiam velut vi victrix libido, profectusque inde Tarquinius ferox expugnato decore muliebri esset, Lucretia maesta tanto malo nuntium Romam eundem ad patrem Ardeamque ad virum mittit, ut cum singulis fidelibus amicis veniant; ita facto maturatoque opus esse; rem atrocem incidisse. Sp. Lucretius cum P. Valerio Volesi filio, Collatinus cum L. Iunio Bruto venit, cum quo forte Romam rediens ab nuntio uxoris erat conuentus. Lucretiam sedentem maestam in cubiculo inveniunt. Aduentu suorum lacrimae obortae, quaerentique viro “Satin salve?”. “Minime” inquit; “quid enim salui est mulieri amissa pudicitia? Vestigia viri alieni, Collatine, in lecto sunt tuo; ceterum corpus est tantum violatum, animus insons; mors testis erit. Sed date dexteras fidemque haud impune adultero fore. Sex. est Tarquinius qui hostis pro hospite priore nocte vi armatus mihi sibique, si vos viri estis, pestiferum hinc abstulit gaudium.” Dant ordine omnes fidem; consolantur aegram animi avertendo noxam ab coacta in auctorem delicti: mentem peccare, non corpus, et unde consilium afuerit culpam abesse. “Vos” inquit “videritis quid illi debeatur: ego me etsi peccato absoluo, supplicio non libero; nec ulla deinde impudica Lucretiae exemplo vivet.” Cultrum, quem sub veste abditum habebat, eum in corde defigit, prolapsaque in volnus moribunda cecidit. Conclamat vir paterque.Passati pochi giorni, Sesto Tarquinio, a insaputa di Collatino, venne con un compagno a Collatia.  Quando (fu) ospitato benignamente da (loro), ignari del piano, essendo stato portato dopo cena nella camera degli ospiti, ardendo d’amore, dopo che sembrava che i luoghi attorno (fossero) sicuri e che tutti dormissero, stretta la spada venne da Lucrezia mentre dormiva, e premuto il petto della donna con la mano sinistra disse: “Taci, Lucrezia, sono Sesto Tarquinio; sono armato; morirai, se emetterai voce”.
Non vedendo la donna, svegliatasi spaventata,  nessun’aiuto (e) la morte quasi imminente, allora Tarquinio dichiarava il (suo) amore, (la) pregava, misceva le minacce alle preghiere, cercava in ogni modo di fa breccia nell’animo della donna. Quando la vedeva ostinata e che non era smossa nemmeno dalla paura della morte, aggiunge alla paura il disonore: disse che quando (fosse) morta avrebbe messo un servo nudo sgozzato, affinché si dica che fosse stata uccisa in un ignobile adulterio.
Avendo vinta con questo terrore l’ostinata pudicizia come se (fosse) vincitore il desiderio, e, espugnato(ne) l’onore, essendo il feroce Tarquinio andato via da lì, Lucrezia, triste per una così grande disgrazia, manda lo stesso messaggio dal padre a Roma e dal marito ad Ardea, affinché vengano con un solo amico fedele; (diceva) così, che c’era bisogno che venissero con urgenza, era successo un fatto terribile. Vennero Spurio Lucrezio con P. Valerio figlio di Volesio, e Collatino con Lucio Giunio Bruno, con il quale tornando per caso a Roma, era stato avvisato dal messaggero della moglie. Trovarono Lucrezia che sedeva triste in una stanza. All’arrivo dei suoi le scesero le lacrime, e al marito che le chiedeva: “Stai bene?”, disse: “Per niente, cosa c’è infatti di bene per una donna, quando ha perso la pudicizia? Le tracce di un altro uomo, Collatino, sono nel tuo letto; infatti solo il corpo è stato violato, l’anima è innocente; la morte sarà testimone. Ma date la destra e la parola che l’adultero non sarà impunito. È Sestio Tarquinio, che da nemico invece di ospite la scorsa notte armato di violenza ha allontanato per me e per sé, se voi siete uomini, la gioia infausta da qui”. Tutti danno la parola in ordine; la consolano infelice nell’animo, spostando la colpa da (lei) costretta all’autore del delitto: (dicono) che la mente pecca, non il corpo, che non c’è colpa da cui non c’è stata del deliberazione. “Voi – disse – vedete ciò che si debba a lui; io anche se mi assolve dal peccato, non mi libero dal supplizio; quindi nessuna impudica viva, su esempio di Lucrezia”. Conficcò nel cuore quel coltello che teneva nascosto sotto la veste, e infertasi una ferita, moribonda cadde. Il marito e il padre gridano.