Fabulae – Liber I

Prologus
Aesopus auctor quam materiam repperit,
hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet,
et quod prudenti vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
quod arbores loquantur, non tantum ferae,
fictis iocari nos meminerit fabulis.

Prologo
Quella materia che lo scrittore Esopo inventò,
questa io la limai con versi senari.
Duplice è la dote del libretto: che muove al riso,
e che insegna la vita con prudente consiglio.
Se qualcuno però avrà voluto criticare,
perché le piante parlino, non solo le fiere,
ricordi che noi scherziamo con favole inventate.

I. Lupus et agnus
Ad rivum eundem lupus et agnus venerant,
siti compulsi. Superior stabat lupus,
longeque inferior agnus. Tunc fauce improba
latro incitatus iurgii causam intulit;
‘Cur’ inquit ‘turbulentam fecisti mihi
aquam bibenti?’ Laniger contra timens
‘Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe?
A te decurrit ad meos haustus liquor’.
Repulsus ille veritatis viribus
‘Ante hos sex menses male’ ait ‘dixisti mihi’.
Respondit agnus ‘Equidem natus non eram’.
‘Pater hercle tuus’ ille inquit ‘male dixit mihi’;
atque ita correptum lacerat iniusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula
qui fictis causis innocentes opprimunt.

I. Il lupo e l’agnello.
Allo stesso ruscello il lupo e l’agnello erano giunti,
spinti dalla sete. Più in alto stava il lupo,
e molto più in basso l’agnello. Allora l’assassino
spinto dalla malvagia bocca offrì il motivo di lite;
“Perché, disse, facesti torbida l’acqua
a me che bevo?„ Il lanuto di rimando temendo
“Come posso, prego, fare ciò che lamenti, lupo?
Da te il liquido scorre ai miei sorsi“.
Respinto quello dalle forze della verità
„Prima di questi sei mesi, soggiunse, dicesti male di me.“
Rispose l’agnello „Veramente non ero nato“.
“Tuo padre, per ercole, egli riprese, disse male di me“;
E così presolo lo sbana con ingiusto massacro.
Questa favola fu scritta per quesgli uomini
che con finti motivi opprimono gli innocenti.

II. Ranae regem petunt
Athenae cum florerent aequis legibus,
procax libertas civitatem miscuit,
frenumque solvit pristinum licentia.
Hic conspiratis factionum partibus
arcem tyrannus occupat Pisistratus.
Cum tristem servitutem flerent Attici,
non quia crudelis ille, sed quoniam grave
omne insuetis onus, et coepissent queri,
Aesopus talem tum fabellam rettulit.
‘Ranae, vagantes liberis paludibus,
clamore magno regem petiere ab Iove,
qui dissolutos mores vi compesceret.
Pater deorum risit atque illis dedit
parvum tigillum, missum quod subito vadi
motu sonoque terruit pavidum genus.
Hoc mersum limo cum iaceret diutius,
forte una tacite profert e stagno caput,
et explorato rege cunctas evocat.
Illae timore posito certatim adnatant,
lignumque supra turba petulans insilit.
Quod cum inquinassent omni contumelia,
alium rogantes regem misere ad Iovem,
inutilis quoniam esset qui fuerat datus.
Tum misit illis hydrum, qui dente aspero
corripere coepit singulas. Frustra necem
fugitant inertes; vocem praecludit metus.
Furtim igitur dant Mercurio mandata ad Iovem,
adflictis ut succurrat. Tunc contra Tonans
“Quia noluistis vestrum ferre” inquit “bonum,
malum perferte”. Vos quoque, o cives,’ ait
‘hoc sustinete, maius ne veniat, malum’.

II. Le rane chiedono il re.
Mentre Atene fioriva per le giuste leggi,
la sfacciata libertà confuse la cittadinanza,
e sciolse l’antico freno con la licenziosità.
Qui, alleatisi pezzi di partiti,
il tiranno Pisistrato occupa il palazzo.
Mentre gli Attici piangevano la triste schiavitù,
non perchè lui (era) crudele, ma perchè grave
(era) tutto il peso per i non abituati, ed avendo cominciato
a lamentarsi, Esopo raccontò allora tale favoletta.
“Le rane, vagando in libere paludi,
con gran clamore chiesero a giove un re,
che con forza frenasse i costumi dissoluti.
Il padre degli die rise e ad esse diese
Un piccolo travicello, che inviato subito col moto
Ed il suono dello stagno atterrì il pauroso popolo.
Giacendo questo a lungo immerso dalla melma,
per caso una tacitamente alza la testa dallo stagno,
ed, esplorato il re, richiama tutte.
Esse, deposto il timore a gara accorrono a nuoto,
e la tuba petulante salta sopra il legno.
Ed avendolo sporcato con ogni oltraggio,
spedirono a Giove (alcune) a chiedere un altro re.
poichè era inutile quello che era stato dato.
Allora mandò ad esse un serpente, che con dente crudele
cominciò ad afferrarle una par una. Invano inerti
sfuggono la carneficina; la paura blocca la voce.
Furtivamente dunque danno incarichi a Mercurio per Giove,
che soccorra le afflitte. Allora il Tonante in risposta
“Poichè non voleste portare il vostro bene, disse,
sopportate il male“. Voi pure, cittadini, aggiunse,
tenete questo male, perchè non (ne) venga uno maggiore.

III. Graculus superbus et pavo
Ne gloriari libeat alienis bonis,
suoque potius habitu vitam degere,
Aesopus nobis hoc exemplum prodidit.
Tumens inani graculus superbia
pinnas, pavoni quae deciderant, sustulit,
seque exornavit. Deinde, contemnens suos
immiscet se ut pavonum formoso gregi
illi impudenti pinnas eripiunt avi,
fugantque rostris. Male mulcatus graculus
redire maerens coepit ad proprium genus,
a quo repulsus tristem sustinuit notam.
Tum quidam ex illis quos prius despexerat
‘Contentus nostris si fuisses sedibus
et quod Natura dederat voluisses pati,
nec illam expertus esses contumeliam
nec hanc repulsam tua sentiret calamitas’.

III. il corvo superbo ed il pavone.
Perchè non piaccia gloriarsi dei beni altrui,
e passare piuttosto la vita colla propria condizione,
Esopo ci tramandò questo esempio.
Il corvo gonfio di vuota superbia
raccolse le penne, che erano cadute al pavone,
e se ne adornò. Poi, disprezzando i suoi
come si confonde al bel gruppo dei pavoni,
essi strappano le penne all’uccello svergognato,
e lo cacciano a beccate. Male conciato il corvo
dolente cominciò a ritornare dalla propria razza,
ma respinto da questo prese un brutto rimprovero.
Allora uno tra quelli che prima aveva disprezzato
 « Se fossi stato contento delle nostre situazioni
ed avessi voluto sopportare ciò che Natura aveva dato,
nè avresti sperimentato quella umiliazione
nè la tua disgrazia sentirebbe questo rifiuto ».

IV. Canis per fluvium carnem ferens
Amittit merito proprium qui alienum adpetit.
Canis, per fluvium carnem cum ferret, natans
lympharum in speculo vidit simulacrum suum,
aliamque praedam ab altero ferri putans
eripere voluit; verum decepta aviditas
et quem tenebat ore dimisit cibum,
nec quem petebat adeo potuit tangere.

IV. Il cane che porta carne sul fiume.
Perde meritatamente il proprio chi aspira all’altrui (bene).
Un cane, mentre portava carne sul fiume, nuotando
vide nello specchio delle acque la sua immagine,
e pensando che una preda diversa fosse portata da un altro
volle strapparla; ma l’avidità ingannata
perse anche il cibo che teneva con la bocca,
né potè così toccare quello che bramava.

V. Vacca et capella, ovis et leo
Numquam est fidelis cum potente societas.
Testatur haec fabella propositum meum.
Vacca et capella et patiens ovis iniuriae
socii fuere cum leone in saltibus.
Hi cum cepissent cervum vasti corporis,
sic est locutus partibus factis leo:
‘Ego primam tollo nomine hoc quia rex cluo;
secundam, quia sum consors, tribuetis mihi;
tum, quia plus valeo, me sequetur tertia;
malo adficietur si quis quartam tetigerit’.
Sic totam praedam sola improbitas abstulit.

V. Vacca e capretta, pecora e leone.
Mai è leale un’alleanza col potente.
Questa favoletta attesta la mia affermazione.
La vacca e la capretta e la pecora resistente all’oltraggio
furono alleati col leone nelle foreste.
Avendo questi preso un cervo di grossa corporatura,
così, fatte le parti, parlò il leone :
 « Io prendo la prima a questo titolo, perchè mi chiamo leone;
la seconda, poichè sono socio, l’attribuirete a me;
poi, poichè posso di più, mi seguirà la terza ;
sarà colto dal male se uno avrà toccata la quarta ».
Così da sola la malvagità prese tutta la preda.

VI. Ranae ad solem
Vicini furis celebres vidit nuptias
Aesopus, et continuo narrare incipit.
Uxorem quondam Sol cum vellet ducere,
clamorem ranae sustulere ad sidera.
Convicio permotus quaerit Iuppiter
causam querellae. Quaedam tum stagni incola
‘Nunc’ inquit ‘omnes unus exurit lacus,
cogitque miseras arida sede emori.
Quidnam futurum est si crearit liberos?’

VI. Le rane verso il sole.
Esopo vide le nozze affollate di un vicino
ladro, e subito comincia a raccontare.
Una volta volendo il Sole prendere moglie,
le rane alzarono un grido alle stelle.
Sorpreso dallo schiamazzo Giove chiede
la causa del lamento. Allora una abitante dello stagno
”Ora, disse, uno solo brucia tutti i laghi,
e costringe le misere a morire per la dimora arida.
Cosa mai sta per capitare se avrà generato figli?”

VII. Vulpis ad personam tragicam
Personam tragicam forte vulpes viderat;
quam postquam huc illuc semel atque iterum verterat,
‘O quanta species’ inquit ‘cerebrum non habet.’
Hoc illis dictum est quibus honorem et gloriam
Fortuna tribuit, sensum communem abstulit.

VII. La vulpe alla maschera tragica.
Una volpe per caso aveva visto una maschera tragica;
e dopo averla girata qua e là una e due volte,
“ Oh quale grande aspetto, disse, non ha il cervello”.
Questo fu detto per quelli cui Fortuna attribuì
onore e gloria, ma tolse il senso comune.

VIII. Lupus et gruis
Qui pretium meriti ab improbis desiderat,
bis peccat: primum quoniam indignos adiuvat,
impune abire deinde quia iam non potest.
Os devoratum fauce cum haereret lupi,
magno dolore victus coepit singulos
inlicere pretio ut illud extraherent malum.
Tandem persuasa est iureiurando gruis,
gulae quae credens colli longitudinem
periculosam fecit medicinam lupo.
Pro quo cum pactum flagitaret praemium,
‘Ingrata es’ inquit ‘ore quae nostro caput
incolume abstuleris et mercedem postules’.

VIII. Il lupo e la gru.
Chi desidera la ricompensa di un merito dai malvagi,
sbaglia due volte: primo perché aiuta gli indegni,
poi perché non può più andarsene impunemente.
Mentre un osso ingoiato era attaccato alla gola del lupo,
vinto dal gran dolore cominciò ad allettare uno alla volta
con paga a togliergli quel male.
Finalmente fu persuasa dal giuramento la gru,
che afidando alla gola la lunghezza del collo
fece la pericolosa medicazione al lupo.
Ma chiedendo per questo il premio pattuito,
”Sei ingrata, disse, (tanto) che hai estratto dalla nostra
bocca la testa incolume e chiedi la ricompensa.”

IX. Passer ad leporem consiliator
Sibi non cavere et aliis consilium dare
stultum esse paucis ostendamus versibus.
Oppressum ab aquila, fletus edentem graves,
leporem obiurgabat passer ‘Ubi pernicitas
nota’ inquit ‘illa est? Quid ita cessarunt pedes?’
Dum loquitur, ipsum accipiter necopinum rapit
questuque vano clamitantem interficit.
Lepus semianimus ‘Mortis en solacium:
qui modo securus nostra inridebas mala,
simili querella fata deploras tua’.

IX. Il passero consigliere alla lepre.
Non badare a sé e dare consiglio ad altri,
dimostriamo che è stolto con pochi versi.
Un passero rimproverava la lepre ghermita da un’aquila,
e che mandava gravi lamenti, “Dove è quella
famosa velocità ?, disse. Perché si sono così bloccati i piedi?”
Mentre parla, un avvoltoio lo prende sprovveduto
e lo uccide mentre grida con vano lamento.
La lepre semiviva “Ecco il sollievo della morte:
tu che poco fa sicuro deridevi i nostri mali,
con simile lamento piangi i tuoi fati.”

X. Lupus et vulpis iudice simio
Quicumque turpi fraude semel innotuit,
etiam si verum dicit, amittit fidem.
Hoc adtestatur brevis Aesopi fabula.
Lupus arguebat vulpem furti crimine;
negabat illa se esse culpae proximam.
Tunc iudex inter illos sedit simius.
Uterque causam cum perorassent suam,
dixisse fertur simius sententiam:
‘Tu non videris perdidisse quos petis;
te credo subripuisse quod pulchre negas’.

X. il lupus e la volpe, giudice la scimmia.
Chiunque con brutta frode una volta sola fu noto,
anche se dice il vero, perde la fiducia.
Questo attesta la breve favola di Esopo.
Il lupo accusava la volpe per la colpa di furto ;
ella diceva che non era vicina al fatto.
Allora sedette giudice tra loro la scimmia.
Mentre l’uno e l’altro peroravano la propria causa,
si racconta che la scimmia pronunciò la sentenza :
 « Tu non sembri aver perso ciò che chiedi ;
credo che tu abbia sottratto ciò che nellamente neghi ».

XI. Asinus et leo venantes
Virtutis expers, verbis iactans gloriam,
ignotos fallit, notis est derisui.
Venari asello comite cum vellet leo,
contexit illum frutice et admonuit simul
ut insueta voce terreret feras,
fugientes ipse exciperet. Hic auritulus
clamorem subito totis tollit viribus,
novoque turbat bestias miraculo:
quae, dum paventes exitus notos petunt,
leonis adfliguntur horrendo impetu.
Qui postquam caede fessus est, asinum evocat,
iubetque vocem premere. Tunc ille insolens
‘Qualis videtur opera tibi vocis meae?’
‘Insignis’ inquit ‘sic ut, nisi nossem tuum
animum genusque, simili fugissem metu’.

XI. Asino e leone a caccia.
Il privo di coraggio, vantando a parole la gloria,
inganna gli sconosciuti, per i conosciuti è (motivo) di derisione.
Il eone volendo cacciare con un asinello come compagno,
Lo copri di frasca ed insieme comandò
che terrorizzasse le fiere con la strana voce,
lui catturerebbe quelle che fuggivano. Allora l’orecchiutello
improvvisamente alza un grido con tutte le forze,
e spaventa le bestie per la strana meraviglia :
ma queste, mentre temendo cercano le note ucite,
sono colpite dallo spaventoso assalto del leone.
Ed egli dopo che fu stanco per la strage richiama l’asino,
e gli ordina di bloccare la voce. Allora quello insolente
 « Quale ti sembra l’opera della mia voce ? »
 « Straordinaria, dice, così che se non conoscessi
la tua indole e la razza, sarei fuggito con simile paura ».

XII. Cervus ad fontem
Laudatis utiliora quae contempseris,
saepe inveniri testis haec narratio est.
Ad fontem cervus, cum bibisset, restitit,
et in liquore vidit effigiem suam.
Ibi dum ramosa mirans laudat cornua
crurumque nimiam tenuitatem vituperat,
venantum subito vocibus conterritus,
per campum fugere coepit, et cursu levi
canes elusit. Silva tum excepit ferum;
in qua retentis impeditus cornibus
lacerari coepit morsibus saevis canum.
Tum moriens edidisse vocem hanc dicitur:
‘O me infelicem, qui nunc demum intellego,
utilia mihi quam fuerint quae despexeram,
et, quae laudaram, quantum luctus habuerint’.

XII. Il cervo presso fonte
Questa narrazione è testimone che spesso le cose che hai
disprezzato si scoprono più utili di quelle lodate.
Un cervo, avendo bevuto, si fermò presso la fonte
e vide nell’acqua la sua immagine.
Qui mentre ammirandole lodava le corna ramose
e disprezzava la troppa magrezza delle zampe,
atterrito improvvisamente dalle voci dei cacciatori,
cominciò a muffire per la campagna e con la corsa leggera
eluse i cani. La selva poi lo accolse selvaggio;
ma in questa bloccato dalle corna trattenute
cominciò ad essere sbranato dai crudeli morsi dei cani.
Allora si dice che morendo abbia espresso questa frase:
”O me infelice, che ora finalmente capisco,
quanto mi siano stete utili le cose che avevo disprezzato,
e, quelle che avevo lodato, quanto (di )lutto abbiano recato.”

XIII. Vulpis et corvus
Quae se laudari gaudent verbis subdolis,
serae dant poenas turpi paenitentia.
Cum de fenestra corvus raptum caseum
comesse vellet, celsa residens arbore,
vulpes invidit, deinde sic coepit loqui:
‘O qui tuarum, corve, pinnarum est nitor!
Quantum decoris corpore et vultu geris!
Si vocem haberes, nulla prior ales foret’.
At ille, dum etiam vocem vult ostendere,
lato ore emisit caseum; quem celeriter
dolosa vulpes avidis rapuit dentibus.
Tum demum ingemuit corvi deceptus stupor.

XIII. La vulpe ed il corvo
Quelle che godono di esser lodate con parole false,
pagano il fio, tardive, con brutto pentimento.
Mentre un corvo voleva mangiare del formaggio rubato
da una finestra, appollaiandosi su di un’alta pianta,
una volpe lo vide e così poi cominciò a parlare:
”Oh qual è, crvo, lo splendore delle tue penne!
Quanto di bellezza porti nel corpo e nell’aspetto!
Se avessi la voce, nessun uccello sarebbe primo”.
Ma quello, mentre voleva mostrare anche la voce,
perse dalla larga bocca il formaggio; che la volpe
ingannatrive rapidamente afferrò con avidi denti.
Allora finalmente lo stupore ingannato del corvo gemette.

XIV. Ex sutore medicus
Malus cum sutor inopia deperditus
medicinam ignoto facere coepisset loco
et venditaret falso antidotum nomine,
verbosis adquisivit sibi famam strophis.
Hic cum iaceret morbo confectus gravi
rex urbis, eius experiendi gratia
scyphum poposcit: fusa dein simulans aqua
illius se miscere antidoto toxicum,
combibere iussit ipsum, posito praemio.
Timore mortis ille tum confessus est,
non artis ulla medicum se prudentia,
verum stupore vulgi, factum nobilem.
Rex advocata contione haec edidit:
‘Quantae putatis esse vos dementiae,
qui capita vestra non dubitatis credere,
cui calceandos nemo commisit pedes?’
Hoc pertinere vere ad illos dixerim,
quorum stultitia quaestus impudentiae est.

XIV. Da ciabattino (a) medico.
Un cattivo ciabattino rovinato dalla miseria
avendo cominciato ad esercitare la medicino in località sconosciuta e spacciando con falso nome un contravveleno,
si acquistò fama con verbosi raggiri.
Allora poiché il re della città giaceva colpito
da grave malattia, per sperimentarlo
(ne) chiese un bicchiere: poi, versata acqua, fingendo
di mescolare veleno al suo contravveleno,
ordinò che lo bevesse lui, promesso un premio.
Per timore della morte egli allora confessò,
che era diventato medico famoso, non per qualche conoscenzadell’arte, ma per lo stupore del volgo.
Il re convocata una assemblea dichiarò queste cose:
”Di quale grave stoltezza pensate voi di essere,
che non dubitare di affidare le vostre teste,
a chi nessuno affidò i piedi da calzare?”
Direi che questo veramente si addice a coloro,
la cui stoltezza è un affare per la spudoratezza.

XV. Asinus ad senem pastorem
In principatu commutando civium
nil praeter domini nomen mutant pauperes.
Id esse verum, parva haec fabella indicat.
Asellum in prato timidus pascebat senex.
Is hostium clamore subito territus
suadebat asino fugere, ne possent capi.
At ille lentus ‘Quaeso, num binas mihi
clitellas impositurum victorem putas?’
Senex negavit. ‘Ergo, quid refert mea
cui serviam, clitellas dum portem unicas?’

XV. L’asino al vecchio pastore.
Nel cambiare il dominio dei cittadini i poveri
non cambiano nulla tranne il nome del padrone.
Che ciò sia vero, questa piccola favolettta dimostra.
Un asinello (lo) pascolava in un prato un timido vecchio.
Egli atterrito dall’improvviso grido dei nemici
persuadeva l’asino a fuggire, per non essere presi.
Ma quello tranquillo “Prego, forse credi che
il vincitore mi imporrà doppie some?”
l vecchio disse di no. “Perciò, che mi interessa
a chi servire, mentre porto some semplici.”

XVI. Ovis cervus et lupus
Fraudator homines cum advocat sponsum improbos,
non rem expedire, sed malum ordiri expetit.
Ovem rogabat cervus modium tritici,
lupo sponsore. At illa, praemetuens dolum,
‘Rapere atque abire semper adsuevit lupus;
tu de conspectu fugere veloci impetu.
Ubi vos requiram, cum dies advenerit?’

XVI. Pecora, cervo e lupo
Quando un imbroglione chiama dei malvagi per garantire,
cerca non che la cosa vada bene, ma macchinare un danno.
Il cervo chiedeva alla pecora un moggio di grano,
garante il lupo. Ma quella, pretemendo un inganno,
 « Il lupo è abituato sempre a rubare e scappare ;
tu a fuggire dalla vista con corsa veloce.
Dove vi cercherò, quando il giorno sarà arrivato ? »

XVII. Ovis canis et lupus
Solent mendaces luere poenas malefici.
Calumniator ab ove cum peteret canis,
quem commendasse panem se contenderet,
lupus, citatus testis, non unum modo
deberi dixit, verum adfirmavit decem.
Ovis, damnata falso testimonio,
quod non debebat, solvit. Post paucos dies
bidens iacentem in fovea prospexit lupum.
‘Haec’ inquit ‘merces fraudis a superis datur’.

XVII. Pecora cane e lupo
I falsi sono soliti pagare il fio del malanno.
Mentre un cane bugiardo reclamava,
pretendendo del pane che aveva prestato,
il lupo, chiamato come teste, disse che si doveva
non solamente uno, ma, affermò, dieci.
La pecora condannata con falsa testimonianza,
pagò quello che non doveva. Dopo pochi giorni
l’ovino vide il lupo giacente in un fossato.
”Questa paga, disse, della frode è data dagli dei”.

XVIII. Mulier parturiens
Nemo libenter recolit qui laesit locum.
Instante partu mulier actis mensibus
humi iacebat, flebilis gemitus ciens.
Vir est hortatus, corpus lecto reciperet,
onus naturae melius quo deponeret.
‘Minime’ inquit ‘illo posse confido loco
malum finiri quo conceptum est initio’.

XVIII. donna partoriente
Nessuno rivuole volentieri un luogo che ha danneggiato.
Imminente il parto, una donna, terminati i mesi;
giaceva a terra, emettendo flebili gemiti.
Il maritò esortò a rimettere il corpo sul letto,
per meglio deporre il peso di natura.
”Minimamente, disse, confido che in quel luogo
si possa finire un male, dove all’inizio fu concepito.”

XIX. Canis parturiens
Habent insidias hominis blanditiae mali;
quas ut vitemus, versus subiecti monent.
Canis parturiens cum rogasset alteram,
ut fetum in eius tugurio deponeret,
facile impetravit. Dein reposcenti locum
preces admovit, tempus exorans breve,
dum firmiores catulos posset ducere.
Hoc quoque consumpto flagitari validius
cubile coepit. ‘Si mihi et turbae meae
par’ inquit ‘esse potueris, cedam loco’.

XIX. Cagna partoriente
Le lusinghe di un uomo malvagio hanno insidie;
e per evitarle, i versi proposti insegnano.
Una cagna partoriente avendo chiesto ad un’altra,
di deporre il parto nel suo covile,
l’ottenne facilmente. Poi alla richiedente il posto
mosse preghiere, chiedendo un breve tempo,
fin che potesse guidare cuccioli più robusti.
Passato anche questo, cominciò a chiedere il covile
più insistentemente. “Se avrai potuto essere pari
a me ed alla mia folla, disse, mi ritirerò dal posto.”

XX. Canes famelici
Stultum consilium non modo effectu caret,
sed ad perniciem quoque mortalis devocat.
Corium depressum in fluvio viderunt canes.
Id ut comesse extractum possent facilius,
aquam coepere ebibere: sed rupti prius
periere quam quod petierant contingerent.

XX. Cani famelici
Uno stolto consiglio non solo manca di successo,
ma porta pure i mortali alla rovina.
I cani videro della pelle immersa in un fiume.
Per poterla più facilmente mangiare, estrattala,
cominciarono a bere l’acqua: ma scoppiati prima
che toccassero ciò che avevano cercato, perirono.

XXI. Leo senex, aper, taurus et asinus
Quicumque amisit dignitatem pristinam,
ignavis etiam iocus est in casu gravi.
Defectus annis et desertus viribus
leo cum iaceret spiritum extremum trahens,
aper fulmineis spumans venit dentibus,
et vindicavit ictu veterem iniuriam.
Infestis taurus mox confodit cornibus
hostile corpus. Asinus, ut vidit ferum
impune laedi, calcibus frontem extudit.
At ille exspirans ‘Fortis indigne tuli
mihi insultare: Te, Naturae dedecus,
quod ferre certe cogor bis videor mori’.

XXI. Leone vecchio, cinghiale, toro e asino.
Chiunque ha perso l’antico prestigio,
è gioco per gli ignavi in una situazione grave.
Spossato dagli anni e abbandonato dalle forze
mentre il leone giaceva tirando l’ultimo respiro,
il cinghiale sumeggiando giunse coi deinti fulminei ;
e con un colpo vendicò una antica ingiuria.
Subito con le corna minacciose il toro trapassò
il corpo nemico. L’asino, come vide che la fiera
era colpita impunemente, coi calci spaccò la fronte.
Ma lui spirando : « Mal sopportai che i forti
mi insultassero. Poichè son costretto a sopportare
te, disonore della Natura, sembro morire due volte. »

XXII. Mustela et homo
Mustela ab homine prensa, cum instantem necem
effugere vellet, ‘Parce, quaeso’, inquit ‘mihi,
quae tibi molestis muribus purgo domum’.
Respondit ille ‘Faceres si causa mea,
gratum esset et dedissem veniam supplici.
Nunc quia laboras ut fruaris reliquiis,
quas sunt rosuri, simul et ipsos devores,
noli imputare vanum beneficium mihi’.
Atque ita locutus improbam leto dedit.
Hoc in se dictum debent illi agnoscere,
quorum privata servit utilitas sibi,
et meritum inane iactant imprudentibus.

XXII. La donnola e l’uomo
Una donnola presa da un uomo, volendo sfuggire
la morte imminente, “Risparmia, prego, disse, me,
che ti pulisco la casa dai topi molesti”.
Egli rispose “Se (lo) facessi per causa mia,
sarebbe gradito ed avrei dato il perdono a (te) suoolice.
Ora poiché fatichi per fruire delle rimanenze,
che hanno intenzione di rodere, insieme e per divorarli,
non imutare a me un beneficio vano.”
E parlato così, diede alla malvagia la morte.
Questo lo devono riconoscere detto contro di sé quelli,
la cui privata utilità serve a loro,
e vantano un merito vuoto agli ignoranti.

XXIII. Canis fidelis
Repente liberalis stultis gratus est,
verum peritis inritos tendit dolos.
Nocturnus cum fur panem misisset cani,
obiecto temptans an cibo posset capi,
‘Heus’, inquit ‘linguam vis meam praecludere,
ne latrem pro re domini? Multum falleris.
Namque ista subita me iubet benignitas
vigilare, facias ne mea culpa lucrum’.

XXIII. Cane fedele
Il liberale all’improvviso è gradito agli stolti,
ma agli esperti tende inutili inganni.
Avendo un ladro notturno inviato pane al cane,
tentando, offerto del cibo, se si potesse prendere,
”Ahi, disse, vuoi bloccare la mia lingua,
perché non latri per il bene del padrone? Ti sbagli molto.
Infatti codesta benevolenza improvvisa mi ordina di
vigilare, perché tu non faccia guadagno per colpa mia.”

XXIV. Rana rupta et bos
Inops, potentem dum vult imitari, perit.
In prato quondam rana conspexit bovem,
et tacta invidia tantae magnitudinis
rugosam inflavit pellem. Tum natos suos
interrogavit an bove esset latior.
Illi negarunt. Rursus intendit cutem
maiore nisu, et simili quaesivit modo,
quis maior esset. Illi dixerunt ‘bovem’.
Novissime indignata, dum vult validius
inflare sese, rupto iacuit corpore.

XXIV. La rana scoppiata ed il bue.
Il povero, mentre vuole imitare il potente, perisce.
Una volta una rana nel prato vide il bue,
e toccata dall’invidia di così grande grossezza
gongio la pelle rugosa. Poi interrogò i suoi
figli se fosse più grossa del bue.
Essi dissero di no. Di nuovo tese la cute
con maggiore sforzo e chiese nello stesso moso,
chi fosse maggiore. Essi dissero “Il bue”.
Da ultimo sdegnata, mentre voleva più fortemente
gongiarsi, scoppiato il corpo, giacque .

XXV. Canes et corcodilli
Consilia qui dant prava cautis hominibus
et perdunt operam et deridentur turpiter.
Canes currentes bibere in Nilo flumine,
a corcodillis ne rapiantur, traditum est.
Igitur cum currens bibere coepisset canis,
sic corcodillus ‘Quamlibet lambe otio,
noli vereri’. At ille ‘Facerem mehercules,
nisi esse scirem carnis te cupidum meae’.

XXV. Cani e coccodrilli.
Quelli che danno cattivi consigli ad uomini cauti
perdono sia la fatica sia son derisi malamente.
Si tramandò che i cani bevono nel fiume Nilo
correndo, per non esser presi dai coccodrilli.
Orbene un cane avendo cominciato a bere correndo,
così (disse) il coccodrillo ». « Lecca quanto mai con calma,
non temere ». Ma quello «  Lo farei, per ercole,
se non sapessi che tu sei voglioso della mia carne. »

XXVI. Vulpis et ciconia
Nulli nocendum, si quis vero laeserit,
multandum simili iure fabella admonet.
Ad cenam vulpes dicitur ciconiam
prior invitasse, et liquidam in patulo marmore
posuisse sorbitionem, quam nullo modo
gustare esuriens potuerit ciconia.
Quae, vulpem cum revocasset, intrito cibo
plenam lagonam posuit; huic rostrum inserens
satiatur ipsa et torquet convivam fame.
Quae cum lagonae collum frustra lamberet,
peregrinam sic locutam volucrem accepimus:
‘Sua quisque exempla debet aequo animo pati’.

XXVI. Volpe e cicogna
La favolettta insegna che non si deve nuocere a nessuno, se però uno ha fatto del male, dev’esser multato con simile pena.
Si dice che la volpe per prima abbia invitato a cena
la cicogna e avesse posto su largo marmo una bevanda
liquida, che in nessun modo la cicogna affamata
avrebbe potuto gustare.
Ma questa, avendo invitato la volpe, sminuzzato il cibo
offrì una bottiglia piena; inserendo in questa il becco
essa si sazia e tormenta la convitata per la fame.
Ed essa leccando invano il collo della bottiglia,
sappiamo che così parlò il volatile pellegrino:
”Ognuno deve sopportare con animo sereno i propri esempi”.

XXVII. Canis et thesaurus et vulturius
Haec res avaris esse conveniens potest,
et qui, humiles nati, dici locupletes student.
Humana effodiens ossa thesaurum canis
invenit, et, violarat quia Manes deos,
iniecta est illi divitiarum cupiditas,
poenas ut sanctae religioni penderet.
Itaque, aurum dum custodit oblitus cibi,
fame est consumptus. Quem stans vulturius super
fertur locutus ‘O canis, merito iaces,
qui concupisti subito regales opes,
trivio conceptus, educatus stercore’.

XXVII. Cane e tesoro e avvoltoio
Questa cosa può essere adatta per gli avari,
e quelli che, nati umili, cercano di esser detti ricchi.
Un cane scavando ossa umane trovò
un tesoro e poiché aveva violato gli dei Mani,
e gli fu iniettato il desiderio di ricchezze,
per pagare il fio alla sacra religiosità.
E così mentre custodiva l’oro, dimenticatodi del cibo,
fu divorato dalla fame. Si racconta che un avvoltoio
stando sopra di lui gli disse: “ O cane, giustamente giaci,
tu che desiderasti improvvisamente ricchezze regali,
concepito nel trivio, allevato nel letame.”

XXVIII. Vulpis et aquila
Quamvis sublimes debent humiles metuere,
vindicta docili quia patet sollertiae.
Vulpinos catulos aquila quondam sustulit,
nidoque posuit pullis, escam ut carperent.
Hanc persecuta mater orare incipit,
ne tantum miserae luctum importaret sibi.
Contempsit illa, tuta quippe ipso loco.
Vulpes ab ara rapuit ardentem facem,
totamque flammis arborem circumdedit,
hosti dolorem damno miscens sanguinis.
Aquila, ut periclo mortis eriperet suos,
incolumes natos supplex vulpi reddidit.

XXVIII. Volpe ed aquila
Anche se nobili, devono temere gli umili,
poiché la vendetta è a perta alla docile destrezza.
Una volta un’aquila prese cuccioli di volpe,
e li pose nel nido per i piccoli, perché prendessero il cibo.
Inseguendo costei la madre comincia a pregare,
perché non gli recasse un così frave lutto.
Quella disprezzò, sicura senz’altro della stessa postazione.
La volpe da un altare rubò una fiaccola ardente,
e circondò di fiamme tutta la pianta,
mescolando per la nemica il dolore del sangue col danno.
L’aquila per strappare i suoi dal pericolo di morte,
supplice restituì alla volpe i figli incolumi.

XXIX. Asinus inridens aprum
Plerumque stulti, risum dum captant levem,
gravi destringunt alios contumelia,
et sibi nocivum concitant periculum.
Asellus apro cum fuisset obvius,
‘Salve’ inquit ‘frater’. Ille indignans repudiat
officium, et quaerit cur sic mentiri velit?
Asinus demisso pene ‘Similem si negas
tibi me esse, certe simile est hoc rostro tuo’.
Aper, cum vellet facere generosum impetum,
repressit iram et ‘Facilis vindicta est mihi:
sed inquinari nolo ignavo sanguine’.

XXIX. L’asino che deride il cinghiale
Per lo più gli stolti, mentre tentano una leggera battuta,
provocano gli altri con grave oltraggio,
e per sé combinano un pericolo deleterio.
Un asinello essendosi trovato di fronte ad un cinghiale,
”Salve, disse, fratello,”. Quello sdegnandosi rifiuta
il ruolo e chiede perché voglia mentire così?
L’asino abbassato il pene “Se dici che non sono
simile a te, certamente questo è simile al tuo rostro”.
Il cinghiale, colendo fare un nobile assalto,
represse l’ira e “Facile mi è la vendetta:
ma non voglio inquinarmi con sangue vile”.

XXX. Ranae metuentes proelia taurorum
Humiles laborant ubi potentes dissident.
Rana e palude pugnam taurorum intuens,
‘Heu, quanta nobis instat pernicies’ ait.
interrogata ab alia cur hoc diceret,
de principatu cum illi certarent gregis
longeque ab ipsis degerent vitam boves,
‘Sit statio separata ac diversum genus;
expulsus regno nemoris qui profugerit,
paludis in secreta veniet latibula,
et proculcatas obteret duro pede.
Ita caput ad nostrum furor illorum pertinet’.

XXX. Rane che temono combattimenti di tori
Gli umili soffrono quando i potenti litigano.
La rana vedendo dalla palude una battaglia di tori,
Ahi, quale grave disgrazia ci incombe” disse.
Interrogata da un’altra perché dicesse così,
mentre quelli lottavano per la supremazia della mandria
ed i buoi passavan la vita lontano da loro,
”Sia separato il territorio e diversa la razza;
chi cacciato dal regno del bosco sarà scappato,
verrà nei segreti nascondigli della palude,
e calpestateci ci stritolerà col duro piede.
Così il furore di quelli interessa la nostra vita.”

XXXI. Milvus et columbae
Qui se committit homini tutandum improbo,
auxilia dum requirit, exitium invenit.
Columbae saepe cum fugissent milvum,
et celeritate pinnae vitassent necem,
consilium raptor vertit ad fallaciam,
et genus inerme tali decepit dolo:
‘Quare sollicitum potius aevum ducitis
quam regem me creatis icto foedere,
qui vos ab omni tutas praestem iniuria?’
Illae credentes tradunt sese milvo.
Qui regnum adeptus coepit vesci singulas,
et exercere imperium saevis unguibus.
Tunc de reliquis una ‘Merito plectimur,
huic spiritum praedoni quae commisimus.

XXXI. Il nibbio e le colombe
Chi affida se stesso da proteggere ad un uomo malvagio,
mentre cerca aiuto, trova morte.
Avendo spesso le colombe fuggito il nibbio,
e con la velocità delle penne avendo evitata la morte,
il rapinatore volse il consiglio ad inganno,
e con tale frode ingannò lo stormo inerme.
”Perché fate una vita inquieta invece di
eleggermi re, stabilito un patto,
io che vi terri sicure da ogni oltraggio?”
Esse fidandosi si consegnano al nibbio.
Ma egli ottenuto il regno cominciò a mangiarle una per una,
ed esercitare il potere coi crudeli artigli.
Allora una delle rimanenti: “Meritatamente siamo colpite,
noi che affidammo la vita a questo predone.”