La spada di Damocle (II)

Cum se ille cupere dixisset, conlocari iussit hominem in aureo lecto abacosque complures ornavit argento auroque caelato. Tum ad mensam eximia forma aliquos pueros iussit consistere eosque diligenter ministrare. Aderant unguenta, coronae, incendebantur odores, mensae conquisitissimis epulis extruebantur. Fortunatum se esse Damocles putabat. In hoc medio apparatu fulgentem gladium e lacunari saeta equina aptum demitti iussit, ut impenderet illius beati cervicibus. Itaque nec pulchros illos ministratores aspiciebat nec plenum artis argentum nec manum porrigebat in mensam; denique exoravit tyrannum, ut abire liceret, quod iam beatus nollet esse. Dionysius, ergo, sic declaravit nihil esse ei beatum, cui semper aliqui terror impendeat.

Cicerone

Poiché quello aveva detto che lo desiderava, ordinò che l’uomo fosse posto su un letto d’oro e adornò parecchie tavole d’oro e d’argento. Poi ordinò che alcuni servetti di straordinaria bellezza stessero in piedi vicino alla tavola e lo servissero con diligenza. C’erano unguenti, ghirlande, si bruciavano incensi, si imbandivano tavole con pietanze prelibatissime. Damocle si riteneva fortunato. In mezzo a questa sontuosità Dionisio ordinò che si calasse dal soffitto una spada lucente appesa con un crine di cavallo, affinché incombesse sul collo di quel fortunato. Pertanto non guardava né quei bei servitori né l’argenteria piena di raffinatezza né allungava la mano verso la mensa; alla fine supplicò il tiranno di lasciarlo andar via. Dionigi, dunque, dimostrò così che non vi è nessuna felicità per colui al quale incombe sempre un qualche terrore.