L’ira non si addice al sapiente

Gaudere laetarique proprium et naturale virtutis est: irasci non est dignitatis eius, non magis quam maerere; atqui tristitia comes est iracundiae et in hanc revolvitur omnis ira vel post paenitentiam vel post repulsam. Et si sapientis est peccatis irasci, magis irascetur erroribus maioribus et saepe irascetur: sequitur ut non tantum iratus sit sapiens sed iracundus. Atqui si nec magnam iram nec frequentem in animo sapientis locum habere credimus, quid ex toto hoc adfectu illum non liberemus ? Modus enim esse non potest, si pro facto cuiusque irascendum est; nam aut iniquus erit, si aequaliter irascetur delictis inaequalibus, aut iracundissimus, si totiens excanduerit quotiens iram scelera meruerint. Et quid indignius quam sapientis adfectum ex aliena pendere nequitia?

Seneca

Gioire e rallegrarsi è proprio e naturale della virtù: adirarsi non è proprio del suo (= della virtù) decoro, non più che essere tristi; ebbene la tristezza è compagna dell’ira e ogni collera ricade in questa o dopo il pentimento o dopo l’insuccesso. E se è proprio del saggio adirarsi con i peccati, si adirerà di più con errori più grandi e si adirerà spesso: ne consegue che il saggio non è soltanto adirato, ma iracondo. Invece se crediamo che nell’animo del saggio non trovi posto né un’ira grande, né frequente, perché non dovremmo liberarlo da tutto questo sentimento? Infatti non può esserci un limite, se bisogna adirarsi per l’azione di ciascuno; infatti o sarà ingiusto, se si adirerà in egual misura per colpe diverse, o molto iracondo, se darà in escandescenze ogni volta che dei misfatti meriteranno l’ira. E cosa c’è di più indegno di un sentimento del saggio che dipende dalla malvagità altrui?