Metamorfosi X – 1-16

Inde per immensum croceo velatus amictu aethera digreditur Ciconumque Hymenaeus ad oras tendit et Orphea nequiquam voce vocatur. Adfuit ille quidem, sed nec sollemnia verba nec laetos vultus nec felix attulit omen.
Fax, quoque, quam tenuit, lacrimoso stridula fumo usque fuit nullosque invenit motibus ignes. Exitus auspicio gravior: nam nupta per herbas dum nova naiadum turba comitata vagatur, occidit in talum serpentis dente recepto. Qunam satis ad superas postquam Rhodopeius auras deflevit vates, ne non temptaret et umbras, ad Styga Taenaria est aumus descendere porta perque leves populos simulacraque functa sepulchro Persephonen adiit inamoenaque regna tenentem umbrarum dominum.

Di lì, avvolto nel suo mantello dorato, se ne andò Imeneo per l’etere infinito, dirigendosi verso la terra dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano. Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito, senza letizia in volto, senza presagi propizi. Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo, provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme. Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa, mentre tra i prati vagava in compagnia d’uno stuolo di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente. A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti, non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro: tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse alla presenza di Persefone e del signore che regge lo squallido regno dei morti.