L’ingratitudine altrui non deve impedirci di essere generosi

Quaeris quemadmodum ingrati ferendi sint: placido animo. Numquam te tam ingratus offendat ut dedisse te paeniteat. Numquam in has voces iniuria impellat: «Vellem non fecissem!». Beneficii tui tibi etiam infelicitas placeat. Sit sane indignum: nihil novi tibi accidisse puta; immo magis mirari deberes, si id non accidisset. Alium labor, alium impensa deterret: alium periculum, alium turpis verecundia ne, dum reddit, fateatur accepisse. Quid levitatem semper alio transilientem loquar? «Quid agam?», quaeris. Neminem ad excitandas domos ruina deterruit, et cum Penates ignis absumpsit, fundamenta, tepente adhuc area, ponimus, et urbes haustas saepius eidem solo credimus: adeo ad bonas spes pertinax animus est. Ingratus est: non mihi fecit iniuriam, sed sibi; ego beneficio meo, cum darem, usus sum.

Seneca

Chiedi come debbano essere sopportati gli ingrati: con animo sereno. L’ingrato non ti irriti mai tanto da pentirti di aver dato. L’offesa non ti spinga mai verso queste frasi: «Vorrei non averlo fatto!». Ti piaccia anche l’insuccesso del tuo beneficio. Ammettiamo pure che sia non meritato: reputa che non ti è successo niente di nuovo; anzi ti saresti dovuto meravigliare di più se ciò non fosse successo. La fatica dissuade uno, il sacrificio un altro: il pericolo un altro, un altro la turpe vergogna di ammettere di aver ricevuto, mentre ricambia. Cosa dovrei dire della superficialità che passa sempre da una cosa all’altra? «Cosa dovrei fare?», chiedi. Il crollo non ha mai trattenuto nessuno dall’innalzare abitazione, e quando il fuoco ha distrutto i Penati, mentre l’area è ancora tiepida, poniamo le fondamenta, e molto spesso affidiamo al medesimo suolo città molto spesso distrutte: a tal punto l’animo è tenace nelle buone speranze. È ingrato: non ha fatto un’offesa a me, ma a se stesso; ho goduto di un mio beneficio, mentre lo concedevo.